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Morire per Danzica o per niente. Differenze

Adriano Sofri

Con Sarajevo, l’altra città fatale d’Europa. Storia, assassinii e responsabilità

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Ci sono due nomi fatali per l’Europa: Sarajevo e Danzica. A Sarajevo il 28 giugno 1914 un maestro serbo-bosniaco, ventenne, vergine di donne, scarpe grosse di paesano, uccise a rivoltellate l’arciduca Franz Ferdinand, l’erede di Franz Joseph, e sua moglie. La Grande guerra aveva una pazza voglia di scoppiare e trovò là la propria scintilla. A Danzica, il 1° settembre del 1939, una corazzata tedesca appena ormeggiata in visita di cortesia aprì il fuoco contro la fortezza di Westerplatte e diede inizio all’invasione della Polonia e alla Seconda guerra mondiale. Le due bellissime città non hanno smesso di scandire la marcia europea. Sarajevo ha sofferto il più lungo assedio dell’età moderna in quella guerra post jugoslava di cui il resto d’Europa ama dimenticarsi ogni volta che rivendica di non aver più conosciuto guerre dopo il 1945. Danzica ha segnato per due volte, nel 1970 e nel 1980, il riscatto del popolo polacco, guidato dai suoi operai, contro il regime sedicente socialista. 

  

L’assassinio di Pawel Bogdan Adamowicz, e il suo modo forsennato, hanno riportato all’immaginazione il peso della storia terribile in quest’Europa pericolante. Stefan Wilmot, il giovane assassino, non è probabilmente che se stesso: squilibrato, tre coltellate mortali, il balletto prolungato sul palco di un concerto post natalizio, la folla ipnotizzata e impotente. A suo modo un Gavrilo Princip polacco, una fiammata periferica più che una scintilla incendiaria, affare interno più che mondiale: uno dei tanti sintomi dell’aria che tira nel suo paese. Non solo, però, perché la sua vendetta di automa, se tale è, vale anche come uno sparo di partenza della campagna elettorale europea, capace di accantonare (anche Princip e gli altri maldestri compagni dell’agguato di Sarajevo non avrebbero mai immaginato di scatenare la guerra mondiale…) altri esordi, alleanze di Visegrád, scampagnate a Strasburgo, gite a Varsavia, dentro e fuori della Brexit. Scusate se infilo qui un argomento estraneo come l’assassinio, a coltellate e rivoltellate, una combinazione piena, di Jo Cox, la parlamentare laburista inglese ed europeista, in piena campagna referendaria per la Brexit: il primo di una lunga lugubre serie di attentati recenti in cui la parte degli assassini vince nelle urne – come, si licet, a Macerata. L’assassino Wilmot può essere un accidente caldeggiato, ma la figura dell’assassinato resta, restano le sue parole: “Danzica è un porto, sarà sempre un rifugio per chi arriva dal mare”.

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Nel 1939, quando il rumore della guerra scuoteva già l’Europa e la divideva tra fautori dell’appeasement e disposti a prendere il proprio posto, Danzica diventò proverbiale per il titolo di un articolo di Marcel Déat sull’Oeuvre del 4 maggio, “Mourir pour Dantzig?” Déat era stato socialista, parlamentare, ministro, ultrapacifista e presto collaborazionista e nazista. “Morire per Danzica?” aveva a che fare con l’oggetto immediato degli ultimatum hitleriani alla Polonia, il Corridoio di Danzica che il trattato di Versailles aveva assegnato alla Polonia separando la Prussia orientale dalla Germania e facendo di Danzica una “Città libera” di fatto controllata dalla Polonia. Ma la fortuna della domanda si legò alla sua accezione più generica e psicologica. Vale la pena di morire per Danzica? voleva dire: vale la pena di morire per qualcosa? E la domanda così allargata e svelata voleva dire: vale la pena di vivere per qualcosa? Quella domanda ha avuto una variante negli anni della Guerra fredda, quando l’orizzonte era dominato dall’incubo atomico (che è ancora lì, appena anestetizzato dall’idea delle atomiche miniaturizzate) e il pacifismo ne ricavava l’impossibilità di un conflitto che avrebbe annientato l’umanità intera. “Meglio morti che rossi o meglio rossi che morti?”, si chiese retoricamente allora. Era tuttavia, nonostante la novità nucleare, la stessa retorica del “Morire per Danzica?” Poi la domanda non ha fatto che riproporsi, perché il mondo è sempre di nuovo messo alla prova e noi con lui. Morire per Srebrenica? Per Aleppo? Per Kiev? Morire per Barcellona? Per Kigali? Per Kinshasa? Per Kobane? Intanto, mentre si muore, in quel modo, nella piazza musicale e benevola di Danzica, l’implicazione sottintesa è ancora che si scelga fra morire per qualcosa o vivere. Che grossolano malinteso. L’alternativa è fra morire per qualcosa e morire per niente. Il mondo migliore sarà, quando sarà, quello in cui tutti possano permettersi il lusso, oggi così riservato, di morire per niente. Tanto per morire.

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