Paul McCartney in concerto nel 2021 (Dimitrios Kambouris / Getty Images)

Trame e teorie

Il prossimo album dei Beatles sarebbe stato una raffica di splendori

Stefano Pistolini

Il libro di Daniel Rachel mette assieme il meglio dei titoli da solisti del quartetto di Liverpool, indagando le ragioni della rottura della band. E scoprendo che forse il motivo potrebbe essere semplicemente di ordine artistico

Dal momento che la sfera ipotetica abita a buon diritto nella storia del pop delle sue leggende, è divertente la lettura del libro The Lost Album of the Beatles del saggista inglese Daniel Rachel dedicato a immaginare come sarebbe stato il “prossimo” album dei Beatles se il quartetto di Liverpool non si fosse disintegrato durante l’epilogo delle registrazioni di “Let It Be”, dopo il concerto sul tetto della Apple e in coincidenza col deflagrare delle beghe legali che si sarebbero trascinate per anni, nel tentativo di dare un senso civile alla caduta di un impero. Non a caso, anzi come premessa a questi ragionamenti, si colloca la teoria critica, formulata in tempi recenti – si parla di accadimenti di 54 anni or sono! – secondo la quale all’origine della dissoluzione della band non ci fossero i dissapori interpersonali tra i quattro musicisti, l’assodata reciproca intolleranza verso alcuni tratti caratteriali di ciascuno (a parte Ringo Starr, che andava bene a tutti), la divisiva onnipresenza di Yoko Ono al fianco di John Lennon e neppure la gerarchia all’interno della band, percepita da George Harrison come repressiva della propria vena creativa e imposta da Paul McCartney ormai insediatosi nel ruolo di direttore musicale dell’ensemble.

 

La questione potrebbe essere stata principalmente di ordine artistico: in sostanza i Beatles erano diventati troppo bravi a maneggiare la formula della produzione seriale di hit musicali, ciascuno secondo l’orientamento del proprio gusto, ma tutti su un livello ampiamente degno d’essere condiviso con il pubblico di adoratori sparso per il mondo. Sennonché a mettere limiti e impedimenti a questo fiotto creativo sempre più impetuoso, c’era la regola ordinatrice del marketing della ditta, che non prevedeva di spingersi oltre la pubblicazione di 2-3 singolo all’anno e di un album ogni due. E il resto? Quelle idee, quegli spunti, quelle composizioni belle e pronte di cui John e Paul, ma anche George (a cui gli altri prestavano orecchio sempre con diffidenza – e sbagliavano) e perfino Ringo si dimostravano capaci, erano tutte destinate a restare là inerti, inedite, presto impolverate, salvo affidarle agli artisti della loro etichetta, procedimento che ai quattro non è mai particolarmente andato a genio? È insomma probabile che proprio a partire da queste elucubrazioni individuali abbia finito per farsi strada nei quattro Beatles l’idea di lasciare da parte (magari solo per un po’) il gruppo, di provare l’emozione di fare le cose da soli, fino a diventare una pulsione centrifuga, fino a rompere il giocattolo e a inaugurare lo sprint che nel giro di pochi mesi dalla separazione avrebbe fatto sbarcare sul mercato i long playing d’esordio di ciascuno dei quattro, dopo che ciascuno si era ripreso ciò che riteneva proprio.

 

Eppure quelle canzoni quasi sempre erano già state ampiamente condivise, discusse e perfino suonate con gli altri, erano in circolo, materia condivisa, “roba Beatles”, prima di tornare alla titolarità dei legittimi proprietari. E il gioco proposto da Rachel è quello di assemblare virtualmente il meglio dei titoli di ciascun debutto solista di John, Paul, George e Ringo, immaginando quali canzoni avrebbero superato il feroce esame della commissione interna, al punto d’entrare a far parte di un album che non è mai nato, ma che, a immaginarlo adesso, o ad ascoltarlo nella playlist creata ad hoc da Rachel (“Like Some Forgotten Dream”, su Spotify) lascia sbalorditi per la qualità che esprime. Sentite qua: “Gimme Some Truth”, “Instant Karma!”, “God”, “Imagine” e “Jealous Guy” di John Lennon; “Maybe I’m Amazed”, “Another Day”, “The Backseat of My Car” di Paul McCartney; “My Sweet Lord”, “All Things Must Pass” e “Isn’t It A Pity” di George Harrison e mettiamoci pure “It Don’t Come Easy” di Ringo.

 

Una succesione terrificante, che avrebbe dato vita alla migliore scaletta da 12 pezzi mai assortita per un album pop. Con un piccolo-grande mistero che giace sotto la superficie di questo “what if”: come sarebbero diventati quei pezzi, una volta che fossero transitati per il laboratorio gastro-musicale dei quattro, quando si sedevano in circolo per elaborare un tune? Ovvero quando si accendeva quel gioco di ammiccamenti, suggerimenti, tic, botte e risposte, e la magia prendeva forma. Ecco: come sarebbero state davvero non lo sapremo mai, ma è facile ipotizzare una raffica di splendori. E al tempo stesso è strano e anche spiazzante ascoltare come, nel giro di pochi anni assieme, quelle anime gemelle si fossero poco alla volta distanziate e avessero preso strade diverse e lontanissime tra loro. Ma già, questo non è un vero mistero, ma semplicemente una regola vecchia come il mondo, che spunta e poi cresce assieme al fatidico procedimento del diventare grandi.