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musica assoluta

Le sinfonie di Mozart. L'irruzione del Romanticismo nel più classico dei classici

Stefano Picciano

"Non sopportano titoli né definizioni", scrive Massimo Mila delle sinfonie del musicista: "Sono senza soggetto. Perché non sono che armonia, bellezza". Niente biografia né psicologismi, dunque. Ma i sentimenti si fanno strada lo stesso

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"Adesso ho mica poco da fare. E devo scrivere anche una nuova sinfonia. Come faccio? (…) Basta, dovrò lavorare la notte". Così, nell’aprile del 1782, Wolfgang Amadeus Mozart scriveva al padre, affranto per l’impegno con una quantità di lavoro tale da mettere alla prova persino quella celeberrima spontaneità creativa, quella fecondità impetuosa che lasciando increduli i contemporanei si è inscindibilmente legata al suo nome. “Si riteneva – scrive Maynard Solomon – che scrivesse musica spontaneamente, per istinto naturale (…) che estraesse capolavori (…) senza alcuno sforzo di volontà cosciente”, ricordando come il primo biografo di Mozart rilevasse che “l’opera era già compiuta nel suo spirito prima che egli si sedesse al tavolo”. 

Duecentocinquanta anni fa, nei mesi che trascorse a Salisburgo alla vigilia dell’ultimo viaggio in Italia (1772), Mozart portava a termine ben otto sinfonie, assai differenti tra loro per caratteri e struttura: un vasto ed eterogeneo laboratorio che riassume i diversi stimoli ricevuti nei lunghi viaggi europei, ricchi di esperienze musicali che egli avrebbe poi sviluppato nella sua straordinaria fecondità.

Certo, siamo ancora assai lontani dalla concezione che attribuirà a questa forma un carattere monumentale, siamo in un tempo in cui la sinfonia è innanzitutto un brano di musica che scaturisce da un gesto per così dire artigianale, in una genesi ancora svincolata dagli attributi di irripetibilità, dai criteri di originalità che caratterizzeranno questa forma musicale nei decenni successivi. Haydn compose 107 sinfonie, Mozart una cinquantina, Beethoven nove, Brahms quattro: è lo straordinario passaggio che ci porta dal Classicismo al Romanticismo. Come scrive Massimo Mila, al tempo di Mozart “la prerogativa della monumentalità, che da Beethoven in poi è diventata un attributo fisso del genere (…) non era ancora affatto connessa con l’idea della Sinfonia”. Era essa piuttosto una forma in fieri, che ancora risentiva del legame con il teatro d’opera, ove aveva svolto il ruolo di ouverture (in diversi casi Mozart stesso tratterà la medesima pagina con le due funzioni), e che da poco aveva iniziato a vivere come composizione autonoma.

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A fine Settecento la sinfonia è ancora musica da eseguirsi per il diletto del pubblico; eppure emerge in Mozart un atteggiamento introspettivo

E’ un tesoro prezioso – oggi, come tanti altri in ambito musicale, assai trascurato – quello delle sinfonie di Mozart, un tesoro a cui Massimo Mila volle dedicare, nel 1968, un corso universitario poi raccolto in un breve, densissimo volume (Le sinfonie di Mozart, Einaudi, 2010), la cui rilettura ci ha spronato a mettere per iscritto queste righe. Un patrimonio capace di meravigliare l’ascoltatore già da quella che è individuata come la prima Sinfonia (K16), nella quale in modo chiarissimo emergono – quasi si volesse esplicitarle fin dall’inizio – le due connotazioni fondanti l’espressività mozartiana, quasi due “anime” capaci di riassumere la poetica del compositore: da un lato il piano affermativo, risoluto nella sua positività enunciativa e, dall’altro, quello tenue, sommesso, quasi implorante e tendente ad una inquieta malinconia. Pensare che il manoscritto fu vergato da un bambino di nove anni offre un’idea di quali potranno essere le sorprese che, in questa pur rapida promenade nella produzione sinfonica dell’autore, ci attendono. 

Il gruppo delle prime tre sinfonie oltre a quella già citata comprende la K19, scritta durante un soggiorno a Londra, e la K22, in cui sorprende l’Andante per l’inusuale tonalità di sol minore: siamo a fine Settecento e la sinfonia è ancora assai lontana dal divenire il luogo dell’indagine interiore o dell’espressione autobiografica per rimanere, innanzitutto, un pezzo di musica da eseguirsi per il diletto del pubblico; eppure emergono, in questo precocissimo atteggiamento introspettivo che pare spingersi alle soglie d’un romanticismo ante litteram, i tratti di una inquietudine che apre il varco a sconosciute profondità dell’animo di un bambino che, nella maturità, avrebbe in più d’una occasione dato alla sua scrittura toni preromantici di inedito fascino. La scelta del sol minore, che Mila definisce “tonalità dell’affanno e dell’angoscia, tradizionalmente legata (…) alle situazioni tragiche”, ci appare come un’anticipazione del clima che ritroveremo nella più tarda Sinfonia K183 (sorprendente nella sua ostinazione dolorosa che irrompe ex abrupto nell’incipit) e, naturalmente, della molto più tarda K550, opera di fascino enigmatico che è forse la pagina più nota dell’autore. 

Merita almeno una citazione la Sinfonia K76, scritta dall’undicenne al ritorno dal grande viaggio che aveva portato la famiglia ad attraversare l’Europa sostando, nell’arco di tre anni, in ottantotto città: l’enfant prodige scrive questa pagina – tra le più sorprendenti della produzione giovanile – nell’intento di mostrare ciò che in quella densissima esperienza aveva imparato. E’ tuttavia con la Sinfonia K183 sol minore (1773-74) che l’ascoltatore può trovare un punto di svolta, nel suo apparire quasi esordio di trame espressive fino allora non pronunciate, nel suo inatteso carattere dolente che irrompe senza preavviso fin dalla prima battuta. Tale fu lo sconcerto generato da questo capolavoro giovanile che il padre, perplesso dinnanzi alle novità di questa partitura, ne avrebbe scritto: “Ciò che non ti fa onore è meglio che non venga conosciuto. Perciò io non ho dato a nessuno le tue Sinfonie, sapendo fin d’ora che tu stesso (…) col passar degli anni, quando ti sarai maturato e avrai acquistato discernimento, sarai ben lieto che nessuno le abbia vedute”. Mila la descrive come una pagina dal “carattere cupo, appassionato e febbrile”, e a noi pare di scorgervi un efficacissimo esempio di avvicinamento alla sensibilità sturmisch, quasi irruzione d’una sehnsucht preromantica nel più classico degli autori. 

Un avvicinamento alla sensibilità “sturmisch”, quasi l’irruzione d’una “sehnsucht” preromantica nel più classico degli autori

Ma è opportuno qui fermarsi: pochi altri ambiti dell’arte occidentale risultano altrettanto difficilmente descrivibili, individuabili, riconducibili a dimensione psicologica o emozionale e il fatto di scorgere in queste partiture una inedita profondità introspettiva non deve condurci a cercare tracce autobiografiche che ridurrebbero la portata semantica di una musica la cui grandezza sta nel fatto di rimanere, in ultima analisi, indecifrabile. E’, quella di Mozart più che quella di chi verrà dopo di lui, arte “assoluta” per eccellenza, a causa di “quel librarsi della sua musica in una magica superiorità rispetto alla sfera terrestre delle vicende umane”, di quella “assenza completa di confessione, di autobiografia”, di una creatività che “respinge ogni sussidio di chiose letterarie o psicologiche”: ciò non la esime dal dare in qua e in là la chiara percezione di un’inquietudine che, dall’espressività un poco ingessata di un Settecento affollato di parrucche incipriate e minuetti, pare allontanarsi assai, per inoltrarsi nella sfera di una profondità allora sconosciuta: la Sinfonia K183, come la Sonata per violino e pianoforte K526 o le prime enigmatiche battute del Quartetto “delle dissonanze” K465 ne sono esempi luminosi. 

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Anche con le seguenti Sinfonie K200 e K201 le strutture musicali vengono pervase da una nuova profondità: “Ora questi schemi formali – scrive Mila – non possono essere altro che i recipienti per i valori espressivi calativi dal compositore”. 

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Curiosa la vicenda, nel suo soggiorno a Parigi (1778), di una Sinfonia (K297, detta “Parigina”) costruita con il proposito di compiacere i gusti dei francesi. Benché alle prove non tutto andasse secondo i programmi (“In vita mia – scrive Mozart al padre – non ho mai udito niente di peggio: non si può immaginare come hanno strapazzato la Sinfonia. (…) Sono andato a dormire scontento e in collera”), l’esecuzione fu un gran successo, come si evince da una lettera successiva: “Per la contentezza subito dopo sono andato al Palais Royal a prendermi un buon gelato”.

La “assenza completa di autobiografia”, una creatività che “respinge ogni sussidio di chiose letterarie o psicologiche”

La bellissima Sinfonia K385, del 1782, nasce dall’elaborazione di una precedente composizione dedicata alla nobile famiglia Haffner e scritta, come racconta Mila, in un periodo segnato da “una tal baraonda di preoccupazioni e di lavoro, che Mozart non se ne ricordava più, e ne fu tutto sorpreso e soddisfatto quando il padre gliela rimandò, un anno dopo”. Ne troviamo traccia nella lettera da cui abbiamo preso le mosse, datata al 20 luglio di quell’anno; sette giorni più tardi, per scusarsi dell’ulteriore ritardo, Mozart aggiungerà: “Mio caro padre, Lei farà degli occhi grandi così, vedendo solo l’Allegro. Ma non è stato possibile fare diversamente”; e il 31 luglio: “Lei vede che la buona volontà c’è, ma quando non si può non si può. Io non sono capace a scarabocchiare alla meglio”. In tale turbinio di ansie la sinfonia venne alla luce, e il fatto che l’autore poi facesse in tempo a dimenticarsene ci dice qualcosa sull’intensità dei suoi ritmi di lavoro. Scriverà infatti sei mesi più tardi: “La nuova Sinfonia Haffner mi ha proprio sorpreso; non ne sapevo più niente. Deve aver fatto certamente un buon effetto”. 

Altre due opere almeno, prima di venire alla trilogia finale, dovrebbero essere suggerite: la Sinfonia K425 (detta “di Linz”) del 1783 e la K504 (detta “di Praga”) del 1786. Siamo ormai giunti al culmine del nostro itinerario: “La sinfonia non è più un piacevole intermezzo musicale per occupare gradevolmente l’orecchio d’una società elegante, ma è (…) un fatto di comunicazione, un grumo di esperienza vissuta che l’artista vuole partecipare ad altri”. Eppure, all’atto di rilevare il “clima espressivo più drammatico che caratterizza queste ultime sinfonie”, quella “intensificazione di contenuti più profondamente e intensamente sentiti”, l’ascoltatore si accorge di dover in ogni caso evitare ogni verbalizzazione relativa a dimensioni emozionali o psicologiche: come ribadisce Mila, infatti, “le sinfonie di Mozart non sopportano titoli né definizioni” in quanto – aggiunge citando Henri Ghéon – “sono senza soggetto. Perché non sono che armonia, bellezza”. 

La grande trilogia finale (K543, K550, K551), composta di getto nell’estate del 1788, consta di tre capolavori a cui l’ascoltatore dovrebbe avvicinarsi con grande attenzione e soprattutto senza fretta, con la doverosa lentezza che va dedicata alle cose importanti: pagine da centellinare con la quiete che si dedica a un grande romanzo e su cui tornare a più riprese, come si fa con la poesia. La Sinfonia K543, in mi bemolle, pone più d’un problema a chi tenti di districare la meravigliosa commistione che in questa partitura si trova di compostezza classica e venature d’intensità romantica: “Al suo apparire destò scalpore per le audacie armoniche di cui è disseminata; nell’epoca romantica fu considerata il modello della serenità mozartiana; oggi si tende nuovamente a sottolinearne il carattere intensamente romantico”, scrive Mila.

La K550 è “forse la più intima confessione di Mozart” ma persiste qualcosa dell’atteggiamento artigianale dei tempi di Bach

La K550 è una delle più note opere dell’autore: il famosissimo incipit, privo di qualsivoglia cenno introduttivo, conduce d’un tratto l’ascoltatore in una dimensione emotiva indefinibile, come dimostra l’acuta divergenza di letture che ne diedero alcuni autorevoli colleghi: mentre Robert Schumann vi intravedeva “aleggiante grazia greca” e Berlioz vi leggeva “grazia, candore, ingenuità, la quintessenza del Classicismo”, altre letture avrebbero individuato in questa pagina una delle massime espressioni dello spirito dionisiaco e dell’inquietudine preromantica che talora si affaccia d’un tratto nelle partiture mozartiane. Consapevole del fatto che il rapporto tra dimensione apollinea e dionisiaca è uno dei temi più affascinanti da indagare nell’opera di Mozart, a proposito della Sinfonia in sol minore Mila, nel suo bellissimo testo, aggiunge: “Questa è forse la più intima confessione che Mozart abbia fatto di sé: ma è, appunto, una confessione di Mozart, e non già di Beethoven e di Schumann. (…) Quale che possa essere ormai l’urgenza dei contenuti (…) persiste in Mozart qualcosa di quel sano atteggiamento artigianale dei tempi di Bach, per cui la deliberata espressione di sentimenti personali non è mai lo scopo della composizione, ancorché possa inconsapevolmente penetrarvi”.

E infine la Sinfonia K551, in do maggiore, che per imponenza e maestosità architettonica ha guadagnato il soprannome mitologico di Jupiter Simphonie. E’ un “carattere di grandiosa apoteosi” a elargire a questo capolavoro le sue sembianze energiche, monumentali, potremmo dire risolutive: una sorta di vera e propria ultima parola. L’ipotesi che l’autore abbia qui quasi consapevolmente cercato di scrivere un capitolo “ultimo” è affascinante, ma destinata a rimanere avvolta dal mistero. Non si contano, del resto, gli studi (da Nissen a Jahn, da Abert a Solomon) che hanno assecondato l’immagine di un ipotetico carattere crepuscolare – quasi l’autore fosse consapevole della fine ormai imminente – delle ultime opere di Mozart: la tonalità dell’ultima sinfonia, connessa alle enigmatiche vicende della commissione del Requiem e alla tendenza della moglie a rimarcare le inquietudini di quei giorni hanno aperto il campo ad una lettura, per lo più consolidatasi nella tradizione, di un carattere drammaticamente conclusivo dell’ultima produzione. 

Lettura a cui in modo estremamente interessante si è opposto Christoph Wolff, che ha invece tentato di mostrare (Mozart sulla soglia della fortuna, EDT, 2012) come il trentaseienne Mozart, in quel 1791, non si sentisse affatto sul punto di ammainare le vele, ma – tra i grandissimi successi di quel periodo e le pur presenti difficoltà – fosse invece tutto proteso verso ulteriori traguardi: considerando i meravigliosi tesori che ci ha lasciato viene da domandarsi, allora, a quali altri vette artistiche avrebbe potuto portare la musica. 

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