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aristocrazia musicale

Il miracolo di David Crosby che canta ancora, con i figli perduti e ritrovati

Stefano Pistolini

Il musicista californiano ha dato alle stampe "For Free", quinto disco negli ultimi sette anni e nuova immersione nella West Coast 2.0. Dopo una vita di eccessi come pochi altri, a ottant'anni "Croz" canta come ne avesse venti. Il segreto? Non ha mai fumato sigarette, dice lui

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Circa 50 secondi dentro “River Rise”, brano d’apertura di “For Free”, nuovo album dell’ottantenne David Crosby, ci si ritrova proiettati nella West Coast 2.0. Il disco diventa una sorpresa, sia per chi coltiva da decenni il culto della più irregolare figura della California eroica del Laurel Canyon, sia per chi s’avvicini casualmente a questo nonno dalle corde vocali limpidissime, almeno quanto i suoi trascorsi esistenziali sono densi e torbidi. Il fatto è che davvero Crosby ha interpretato tutti gli assiomi sottoculturali di quella terra nel suo momento magico, imboccando ogni strada controsenso. Una trentina d’anni di dipendenza da eroina, cocaina e varie combinazioni, una vita sessuale delirante, seminando amanti (Joni Mitchell la più clamorosa, di cui fu pigmalione, scoprendola in Florida e proiettandola nella scena hip losangelesiana), figli – James Raymond l’ha conosciuto solo quando lui aveva già trent’anni, ma poi, dopo una complicata riappacificazione, adesso è il suo principale collaboratore artistico – e band, dalle quali veniva messo alla porta per cattiva condotta (The Byrds) o che contribuiva a trasformare in effimeri laboratori di meraviglie, ma anche in ring pugilistici tra ego troppo espansi (Crosby, Stills, Nash & Young – adesso lui si rivolge la parola solo con Stills. Altro che reunion…). 

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Circa 50 secondi dentro “River Rise”, brano d’apertura di “For Free”, nuovo album dell’ottantenne David Crosby, ci si ritrova proiettati nella West Coast 2.0. Il disco diventa una sorpresa, sia per chi coltiva da decenni il culto della più irregolare figura della California eroica del Laurel Canyon, sia per chi s’avvicini casualmente a questo nonno dalle corde vocali limpidissime, almeno quanto i suoi trascorsi esistenziali sono densi e torbidi. Il fatto è che davvero Crosby ha interpretato tutti gli assiomi sottoculturali di quella terra nel suo momento magico, imboccando ogni strada controsenso. Una trentina d’anni di dipendenza da eroina, cocaina e varie combinazioni, una vita sessuale delirante, seminando amanti (Joni Mitchell la più clamorosa, di cui fu pigmalione, scoprendola in Florida e proiettandola nella scena hip losangelesiana), figli – James Raymond l’ha conosciuto solo quando lui aveva già trent’anni, ma poi, dopo una complicata riappacificazione, adesso è il suo principale collaboratore artistico – e band, dalle quali veniva messo alla porta per cattiva condotta (The Byrds) o che contribuiva a trasformare in effimeri laboratori di meraviglie, ma anche in ring pugilistici tra ego troppo espansi (Crosby, Stills, Nash & Young – adesso lui si rivolge la parola solo con Stills. Altro che reunion…). 

Tutti i pronostici, comunque, lo davano morto prima dei 30, dal momento che i presupposti per la sopravvivenza con uno stile di vita del genere sono vicini allo zero. Invece adesso, ripulito da lunga pezza, Crosby non solo è ancora in circolazione (sostiene che si è salvato perché non ha mai fumato sigarette: parere personale), ma è diventato protagonista di una rinascita artistica che conosce pochi precedenti, vista l’anagrafe e il fatto che fino alla maturità inoltrata la sua carriera solistica è stata avara di produzioni, fatto salvo il suo splendido debutto a proprio nome, quel “If I Could Only Remember My Name” che resta un capolavoro assoluto di quella musica, di quei tempi e, più in generale, di quella cultura. Passato l’uragano degli eccessi, Crosby ha saputo ricomporre in modo miracoloso le sue capacità, i propri doni naturali (a cominciare da quella vocalità che ha pochi rivali) e la capacità di progettare nuova musica che rispettasse la sua appartenenza, acquisendo però fattori innovativi. Il risultato sono cinque album negli ultimi sette anni, di cui quest’ultimo, “For Free”, invoca il diritto d’essere ascoltato, per la qualità pura di cui è in possesso. 

Ovviamente qui parliamo di vera aristocrazia musicale, per quanto agée e venerabile. E prenotando lo studio di registrazione, l’uomo che laggiù chiamano “Croz”, s’è assicurato collaboratori come Donald Fagen e Michael McDonald, ed è andato a ripescare brani nel repertorio della vecchia fiamma Joni (il brano che dà il titolo all’album), che lui sempre omaggia come “la più grande di tutti”. Peccato che l’artrite gli impedisca di rispolverare il suo eccellente fingerpickin’ chitarristico (lo sostituisce l’umile figliolo ritrovato), motivo per cui Crosby si limita ad occuparsi delle parti vocali (controcanti e armonie sono della figlia Grace: a muoversi sono vere carovane parentali…), con una classe che ha pochi eguali – tralasciando lo stupore nel pensare che quest’ugola appartenga a un ottuagenario! Croz racconta che fa ancora dischi perché non può farne a meno, convinto com’è che il mondo abbia sempre bisogno di nuova musica (non sono parole d’occasione, ma residui di vere filosofie esistenziali) e perché deve sbarcare il lunario, dopo che si è dovuto vendere il veliero con cui girava gli oceani e l’intero catalogo editoriale delle sue composizioni. Il disco scorre soffice, avvolgente, una toccante perfezione. Perfino quando, nel brano di chiusura, “I Won’t Stay for Long”, lui ci scherza sopra, cantando dei momenti in cui sta sotto il portico di casa e si sente sul ciglio dell’abisso. E’ quasi finita: sa che il tempo che gli resta è limitato. Ma con candore guarda indietro, agli errori e alle cose belle, e tutto riluce. Aver vissuto per intero quell’Era dell’Acquario di cui cantava da ragazzo, dev’essere stato un gran divertimento.

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