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Taylor Swift, la regina dei numeri

Simonetta Sciandivasci

A sorpresa, la cantautrice americana pubblica il secondo album in otto mesi. Due dischi che sono il romanzo perfetto per capire cosa significa essere fatti di musica

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A tredici anni, Taylor Swift non vedeva l’ora di averne trentuno, perché 31 è il contrario di 13, il suo numero preferito. Lo ha scritto su Instagram, tre giorni prima di compierli, trentuno anni, lo scorso 13 dicembre, in una didascalia che annunciava l’uscita del suo nuovo disco in studio, “Evermore”, il secondo di quest’anno, l’anno del blocco, del disastro, della reclusione che ha annichilito, tramortito, rimandato a pane mazze e panelle quasi tutto e tutti ma certamente non lei, che di dischi ne ha scritti persino due. Due dischi in otto mesi, a trent’anni, nel pieno di una pandemia, con ancora un maxi successo da smaltire: “Lover”, il suo disco dell’anno scorso, il più preordinato di sempre e come al solito uno dei più venduti e ascoltati dell’anno, del decennio, della storia. “Lover” aveva fatto scrivere che era diventata grande, libera, matura, sempre stupefacente mai disorientante anzi persino rassicurante. Lo aveva fatto uscire il 23 agosto perché due più tre più otto fa tredici. Scusate i numeri, ma per lei sono importanti perché fanno ordine e pure perché, nel far tornare le cose, svelano i grandi disegni, talvolta le magie, da cui le cose dipendono, e così ne tracciano le possibilità ulteriori, i sentieri nuovi. Il Citizen Kane di TS è un disco che si chiama con un numero, “1989”, che è l’anno in cui TS è nata, quello nel quale si congeda dal country che le sta nel corredo genetico, il suo primo disco “ufficialmente pop”. Il lavoro meno biografico e per questo più identitario della sua carriera, almeno fino ad allora. Orson Welles aveva 26 anni quando uscì “Citizen Kane”. Taylor Swift ne aveva 25 quando è uscito “1989”, un miliardo di stream su Spotify, al quinto posto nella classifica degli album femminili di maggior successo della storia – al secondo posto ce n’è un altro suo, Fearless; al nono ancora lei con “Taylor Swift”.

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A tredici anni, Taylor Swift non vedeva l’ora di averne trentuno, perché 31 è il contrario di 13, il suo numero preferito. Lo ha scritto su Instagram, tre giorni prima di compierli, trentuno anni, lo scorso 13 dicembre, in una didascalia che annunciava l’uscita del suo nuovo disco in studio, “Evermore”, il secondo di quest’anno, l’anno del blocco, del disastro, della reclusione che ha annichilito, tramortito, rimandato a pane mazze e panelle quasi tutto e tutti ma certamente non lei, che di dischi ne ha scritti persino due. Due dischi in otto mesi, a trent’anni, nel pieno di una pandemia, con ancora un maxi successo da smaltire: “Lover”, il suo disco dell’anno scorso, il più preordinato di sempre e come al solito uno dei più venduti e ascoltati dell’anno, del decennio, della storia. “Lover” aveva fatto scrivere che era diventata grande, libera, matura, sempre stupefacente mai disorientante anzi persino rassicurante. Lo aveva fatto uscire il 23 agosto perché due più tre più otto fa tredici. Scusate i numeri, ma per lei sono importanti perché fanno ordine e pure perché, nel far tornare le cose, svelano i grandi disegni, talvolta le magie, da cui le cose dipendono, e così ne tracciano le possibilità ulteriori, i sentieri nuovi. Il Citizen Kane di TS è un disco che si chiama con un numero, “1989”, che è l’anno in cui TS è nata, quello nel quale si congeda dal country che le sta nel corredo genetico, il suo primo disco “ufficialmente pop”. Il lavoro meno biografico e per questo più identitario della sua carriera, almeno fino ad allora. Orson Welles aveva 26 anni quando uscì “Citizen Kane”. Taylor Swift ne aveva 25 quando è uscito “1989”, un miliardo di stream su Spotify, al quinto posto nella classifica degli album femminili di maggior successo della storia – al secondo posto ce n’è un altro suo, Fearless; al nono ancora lei con “Taylor Swift”.

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I numeri sono importanti anche per noi, per capire che portata ha, quant’è enorme quest’artista così ragazza e già classica, miliare. Ha scritto su Instagram che quest’anno tocca a lei farci un regalo per il suo compleanno. Poi ha scritto “This is Folklore’s sister record”, spiegando che non le era mai successo di scrivere due dischi in un anno, perché di solito per lei un disco è un arrivo, un’era a sé, un tondo, e quando è finito e rilasciato si cambia penna, si prende un nuovo quaderno, una nuova strada, e si scrive altro, si va da un’altra parte. Stavolta, però, la cesura non è stata possibile perché non ci sono stati tregua, pausa, riposo, vuoto: “Per dirla chiaramente, non riuscivamo a smettere di scrivere”. Taylor Swift è rimasta nel bosco, lo stesso che compariva nella copertina di “Folklore”, il disco “sorella” di questo “Evermore”, e uscito a luglio scorso all’insaputa di tutti, annunciato nello stesso modo, con una copertina scomposta su Instagram e le didascalie che raccontavano tutto, dicevano che niente era stato previsto, come una ragazza che scopre di essere incinta e si chiede: ma com’è possibile, se da mesi non faccio che guardare campanelli? TS è rimasta nel bosco, nella prima copertina la vediamo di fronte, in bianco e nero, nella seconda di spalle, a colori.

 

“Folklore”, TS lo scritto mentre era reclusa come tutti, come nessuno capace di rendersi conto che quella condizione era perfettamente umana perché le consentiva di scavare. Homo viene da humare, seppellire, la cosa che si fa dopo aver scavato, vissuto. Si seppelliscono i morti, si seppelliscono i semi. “Folklore” è arrivato di colpo, senza annunciarsi o bussare, entrando sicuro. E si sente. Si sentono l’irruenza, lo scavo, la ricerca, la domanda, la mano tesa. Soprattutto di questo, in fondo, dentro o sotto le trame dei testi, sul bordo dei fraseggi, parla il disco: di vocazione, ispirazione, di che cosa succede quando un artista accetta di fare da interprete al lampo che lo attraversa per farsi descrivere e farsi vedere, ascoltare, percepire. E meglio ancora: più che parlare di questo, Folklore è tutto questo. Franco Mussida ha detto a questo giornale che il difficile non sta nello scrivere una canzone, ma nel creare le condizioni giuste affinché quella canzone arrivi, si palesi, entri, trafigga, urli: il lavoro di chi la scrive consiste essenzialmente nel prepararsi ad accoglierla, di modo che possa darsi subito, arrivare così com’è. La preparazione a quell’accoglienza è il lavoro artistico, richiede un esilio. L’isolamento, quest’anno, è l’ora di tutti, la congiuntura universale, una forzatura doverosa, civica. Si fa in una stanza. L’esilio, invece, è una condizione che un artista sceglie per osservare le cose, penetrarle nella distanza, aspettare il lampo.  

 

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Nel video di “Cardigan”, il primo singolo di “Folklore”, TS si tuffa nel pianoforte, arriva sulla sponda di un fiume, in un bosco fiabesco, si siede, suona, poi vuole ancora altro, apre lo sgabello, ci si tuffa dentro, e finisce in acqua, quasi annega, c’è una tempesta, le va incontro ancora quel suo pianoforte, ci entra di nuovo dentro, torna a casa, fradicia, spaventata, finalmente pronta a parlarci. Ha avuto la sua avventura, l’ha avuta perché ha accettato di farsi suonare dal suo pianoforte, entrandoci dentro. Quel video così invernale e dantesco è arrivato in estate, tra la prima e la seconda ondata, quando crederci liberi per sempre o per l’ultima volta ci faceva sbagliare e sbranare nello stesso modo. Ascoltavamo tormentoni estivi, “Jerusalema”, il Salento, Alessandra Amoroso che diceva di Karaoke e piazze piene e cose di prima, e poi ascoltavamo lei, che cantava “You’re not my homeland anymore, so what am I defending now? You were my town, now I’m in exile seein’ you out”, insieme a Bon Iver. E tutti quelli dell’indie a strabuzzare gli occhi, specie da questa parte dell’oceano, in questo paese dove se Emma Marrone dice “rock’n’roll” tuonano i vecchi del tempio. Ma come, la regina del mainstream, la ragazza dei record, sangue di major, canta e suona con Bon Iver? In Italia si leggeva che era quella collaborazione a dar lustro e bellezza e preziosità al disco: era il tocco di Justin Vernon a rendere “Folklore” così raffinato e incredibile. Se ne parlava come l’ennesima scelta perfetta, il colpo studiato da una maniaca di potere, la più furba, la prima del pianeta. La settimana scorsa, quando è uscito “Evermore”, Nate Jones ha scritto su Vulture che negli ultimi dieci anni TS è stata al centro delle discussioni dell’opinione pubblica americana praticamente su tutto, che è stata il peggior incubo delle femministe e, insieme, un pregiato prodotto femminista, un personaggio ispirante, un’icona motivazionale ma pure un bersaglio, un idolo da tirare giù, senza che mai niente di tutto questo ne minasse credibilità, ascolti, risultati.

 

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“Le parole che usiamo per raccontarla sono cambiate, perché siamo cambiati noi, non lei”, ha scritto Jones, intendendo che in America il femminismo è stato decisivo nel depotenziare la crudeltà che si riservava alle donne di successo, e che per questo ora, davanti a questo doppio album eccezionale, si riesce a riconoscere che la grandezza artistica di una come lei non è che sua, e c’è sempre stata, anche quando cantava canzoni perfette per gli spot perché erano spot. E invece noi qui, miseri, a ricostruire influenze, debiti, crediti, oneri, percentuali d’arte, di mestiere, di culo, di Zeitgeist, anche davanti a due dischi che sono un romanzo perfetto su cosa significa essere fatti di musica. Ecco cosa è questo doppio disco: un lavoro su com’è essere fatti di musica. Amy Winehouse era fatta di musica, Elsa Morante era fatta di romanzo. Certe e certi sono fatti del mestiere che scelgono. Di Swift, così come di Morante, è questo che è emozionante osservare, quando le si ascolta, legge, vede: sono creature fatte dell’arte che producono. Quattro mesi fa, a 24 ore dalla pubblicazione, “Folklore” aveva venduto 1,3 milioni di copie, battuto il record di album di artista donna più ascoltato nel primo giorno di uscita (80,6 milioni di stream su Spotify), svettato in cima alla lista di iTunes in ottanta paesi, fatto di TS la più ascoltata in un giorno del 2020. La settimana scorsa, quando è arrivato il disco sorella di “Folklore”, questo “Evermore”, un critico musicale americano, Ross Horton, ha scritto: “Come si sta dopo aver pubblicato uno dei dischi di maggior successo di tutti i tempi? Taylor Swift ha la risposta: se ne pubblica subito un altro il prima possibile”. E’ questo che dicono, di lei, i numeri: che non le basta mai. E non si tratta di sete di successo: ha avuto tutto il successo possibile, ha raggiunto, imbattuta, i più grandi record della storia della musica, la sola rivale alla sua altezza è lei stessa. Come noi siamo fatti d’acqua e di bere abbiamo continuamente bisogno, così lei è fatta di musica e ha bisogno continuamente di suonare. Non le basta mai perché è in cerca, in cammino verso il linguaggio. Più delle cose da dire, le interessano le forme in cui si possono dire le cose. Racconta storie, naturalmente, perché è una popstar americana che arriva dal folk, cresce nel pop mainstream e adesso al folk fa ritorno, contaminandolo di tutto quello che ha imparato e appreso in questi anni: la narrazione ce l’ha nel sangue, per statuto.  

 

 

 

Ha scritto Stefano Pistolini che TS “sa dare letteratura e cinema alla propria voce, farla diventare suggestivamente narrante, perché i grandi indipendenti della canzone americana, da Dylan e Cohen, da Cobain a Young a Joni Mitchell sono sempre maestri affabulatori, che ci stendono non solo con i ghirigori dei loro motivi, ma con le storie che ci dicono, manco che Fitzgerald e Carver fossero passati invano”. “Folklore” è stato il disco che ha dimostrato che la strabiliante principessa pop che mostrava sin da subito che non sarebbe mai diventata reginetta non per incapacità ma per rinuncia al trono, è diventata artista. E da artista intende lavorare. E’ in questo senso che “Folklore” è un disco su come arrivano le canzoni, e sulla vocazione. Il suo gemello, “Evermore”, lavora sullo stesso piano perché è un piano infinito: una ricerca di forma prima che un’indagine di sostanza. Le storie di “Evermore”, come le storie di Carver raccontano quello che si vede per dire quello che non si vede. Per questo non usano la bella frase. Per questo creano il mistero. “Non riuscivamo a smettere di scrivere”. TS non sapeva che altre quindici canzoni sarebbero arrivate, a soli quattro mesi da un disco lungo e impegnativo come “Folklore”, a meno di un anno da “Lover” e da un documentario, “Miss Americana”, che diceva di lei la grazia e il peso di avere un talento come il suo, l’impossibilità di sottrarsi alla responsabilità di curarlo, servirlo, ma diceva pure che aveva trovato un equilibrio, una pace e che quella pace stava nel ritrarsi, concedersi meno, spendersi per il risultato e non per la perfezione e insomma: provare ad avere una vita normale. In quel documentario, TS era l’inumanamente brava ma pure l’umanissimamente fragile, la “semplice ragazza che sta davanti a un semplice ragazzo e gli chiede di amarla” (le signore riconosceranno la citazione). A diciassette anni, Taylor Swift aveva già un repertorio di 150 canzoni. E’ diventata famosa così in fretta e con dentro così tante cose da dire che s’è ammalata. Per anni non è riuscita a pensare che a scrivere la canzone perfetta, con un intento chiarito solo adesso: guadagnarsi la libertà di fare tutto. Scalare non le importa più: vuole fare l’opposto, scavare. Prendersi tempo. Dire la stessa cose in venti modi diversi. Raccontare le storie delle vite degli altri con un linguaggio che è la storia della sua vita. “Evermore” è precisamente questo. “Folklore” racconta il farsi di quel linguaggio che in “Evermore” diventa storia.

 

E’ arrivata la pandemia e Taylor Swift ha dovuto sedersi, come tutti. S’è seduta sul pianoforte, poi ci è salita sopra, poi ci si è tuffata dentro. Quando è risalita, sapeva chi era: “Sometimes you just don’t know the answer”. La prima canzone di “Evermore” si chiama “Willow”, salice. Il ritornello fa così: “The more you say, the less I know, wherever you stay, I follow, I’m begging for you to take my hand, wreck my plans, that’s my man”. E’ una dichiarazione di smarrimento volontario. Di dispersione del precedente. E’ un verso che, come molte altre canzoni, rima con l’ultimo disco di Fiona Apple, uscito qualche mese fa, dopo anni di silenzio, anni impiegati ad accettare di essere immodificabile e di avere un solo compito: preservarsi nella radicalità che rende chi la porta inviso agli altri, imperdonabile – è di questo che parla Guccini in “Vedi Cara”: non ti posso amare completamente, verrai sempre dopo, tu sei molto anche se non sei abbastanza. Apple e Swift arrivano da mondi diversi ma convergono nella libertà che hanno trovato. Swift ed Apple sono libere nel sottrarsi alla contaminazione del volere degli altri, nel rifiutare il compromesso e, ancora prima, nel fare in modo che nessuno chieda loro di pattuirne uno. Avrebbe potuto fermarsi per un anno o due o tre o sei, TS. Invece ha scritto due dischi in otto mesi, è filata in vetta alle classifiche, in estate, suonando con un cappotto addosso. E’ trascinante anche quando è respingente. Il pubblico l’ha amata quando era una nuova Christina Aguilera, e ballava e luccicava e perpetrava la storia delle popstar bionde degli Stati Uniti d’America e però andava anche in copertina sul Time, quando il body positive era roba da dissertazioni alla Columbia, con un filo di trucco e il rimprovero negli occhi che diceva: la sola cosa mia che è anche vostra è la musica che scrivo, non il corpo, non l’armadio.

 

Quando ha detto per chi votare. Quando ha litigato con i Kardashian. Quando è stata accusata di appropriazione culturale. Quando il suo successo era così clamoroso e insistente che il modo più semplice per spiegarlo era dire che lei era un’icona bianca, una stronza. Ci sono le popstar che ci dicono com’è questo tempo, di cosa dovrebbe occuparsi, di cosa soffrono donne e uomini, e poi c’è Taylor Swift, la capoclasse, che fa due dischi nell’anno che fa perdere agli uomini il controllo del mondo, per dire agli uomini tutto quello che una musica può fare, per sempre, evermore. “Ho spezzato il mio corpo come fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo”. E questa era Etty Hillesum, quasi santa.

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