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L’antica via degli empi

Simonetta Sciandivasci

I dischi paralleli di Bianconi e Speranza, che raccontano l’abisso della natura umana senza giudicarla

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Certi uomini percorrono la via degli empi. Sbagliano. Peccano. Strappano. Mentono. Aggrediscono. Rubano. Violentano. Lo fanno a volte con le migliori intenzioni, altre volte con le peggiori intenzioni, altre ancora senza alcuna intenzione: lo fanno per vivere, lo fanno per morire. Io vivo perché ho voglia di morire, canta Francesco Bianconi nel suo disco nuovo, quieto e inquieto, alla fine di una canzone che si chiama “Certi Uomini” (e sì), e dice che certi uomini vivono per soldi, altri per il potere, altri per la droga, per il mare, altri, lui, per tornare da dove vengono: “dalla fica”. “Io so che son venuto dalla fica e so che lì voglio tornare, per avere l’illusione e l’impressione di inventare un tempo buono o un altro figlio, una preghiera contro il male”.

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Certi uomini percorrono la via degli empi. Sbagliano. Peccano. Strappano. Mentono. Aggrediscono. Rubano. Violentano. Lo fanno a volte con le migliori intenzioni, altre volte con le peggiori intenzioni, altre ancora senza alcuna intenzione: lo fanno per vivere, lo fanno per morire. Io vivo perché ho voglia di morire, canta Francesco Bianconi nel suo disco nuovo, quieto e inquieto, alla fine di una canzone che si chiama “Certi Uomini” (e sì), e dice che certi uomini vivono per soldi, altri per il potere, altri per la droga, per il mare, altri, lui, per tornare da dove vengono: “dalla fica”. “Io so che son venuto dalla fica e so che lì voglio tornare, per avere l’illusione e l’impressione di inventare un tempo buono o un altro figlio, una preghiera contro il male”.

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Ha detto “fica” dentro un microfono, precedente non illustre, anche Donald Trump, svariati anni fa, e nel 2016 il Washington Post aveva tirato fuori video e audio, sperando che questo intaccasse la sua credibilità, ma niente, altroché. Giovedì notte, durante l’ultimo confronto tra Biden e Trump prima delle elezioni, il primo civile o almeno guardabile tra loro (lo hanno sottolineato più o meno tutti i commentatori), Biden ha detto che il 3 novembre si voterà sull’integrità e qualità morale degli Stati Uniti. Trump ha detto che nessuno, nemmeno Abramo Lincoln, ha fatto più di lui per la comunità afroamericana. E Biden ha guardato l’orologio, sperando che il supplizio finisse presto, e dimenticandosi che, per aver guardato l’orologio durante un dibattito con il proprio avversario, Bush perse contro Bill Clinton. O almeno così dissero. Magari non se lo è affatto dimenticato, magari lo ha fatto apposta, magari vuole perdere, naufragare, ché naufragare è dolce, ché l’acqua di naufragio disseta. Certi uomini si candidano alla presidenza degli Stati Uniti e s’arrendono a loro stessi, uno alle proprie bugie, l’altro alla propria stanchezza. Parla anche di questo, Bianconi, nel suo disco così maschile e bellissimo, umano, certo, universale senza dubbio, ma prima d’ogni cosa maschile. Parla di quant’è stanco di cercare il bene, di sentirsi in colpa, d’essere colpevole, di tentare di evitare l’abisso, perché è uguale al cascarci dentro. “Le ho provate tutte, psicofarmaci, dottrine, psicoanalisi, preghiere e altri sport, son diventato padre, re di Francia, Casanova, ho respirato, preso botte, fatto box eppure non riesco ad affrontare il Leviatano”.

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Il disco si chiama “Forever”, che è una parola che negli anni Novanta usavamo sui diari di scuola, o nelle frasi d’amore, o nelle firme, o nei murales: era una parola legante e vincente. Per Bianconi, invece, questo per sempre è l’inestinguibilità della colpa, del peccato, della pulsione di morte e della pulsione di vita, la coazione all’errore, la replica degli sbagli, perché chi sbaglia è vivo, aveva scritto Philip Roth, che di colpevolezza ereditata e per procura ne sapeva qualcosa. Il movimento di Bianconi in questo disco è piuttosto chiaro, lineare: un tuffo dove l’acqua è più nera, dove tutto è più nero, e per questo ci sono l’origine del mondo, un assassino che compra i giornali ed è killer per passione, un ragazzino che muore d’infarto, Babadook, il possesso, e un sacco di altre cose orgogliosamente oscure, immutabili, ineducabili, incorreggibili. Che la razza umana sia incorreggibile è una gigantesca verità, è una croce che portano gli uomini, certi maschi, forse tutti. 

  
Mia Martini l’aveva detto (va bene, cantato) di tutti: gli uomini non cambiano, prima parlano d’amore e poi ti lasciano da sola; ti cambiano, e tu piangi mille notti di perché; ti uccidono, e con gli amici vanno a ridere di te. 

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Certi uomini vivono per soldi, certi bastardi per il potere, i ragazzi per vivere. Francesco Bianconi, trent’anni dopo, è più cauto: dice certi, dice ragazzi, dice i naviganti, i suoi amici, i cantanti, dice io. 

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“Volevo fare una cosa nuova che reggesse all’usura del tempo”, ha detto Bianconi al Rolling Stone, “in fondo potrebbe essere un disco del 1700”. 


Le cose che ci suonano nuove sono antiche, forse primitive: se questo è davvero un disco settecentesco, è pure un disco preistorico.  

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L’antica via degli empi, certi uomini percorrono l’antica via degli empi, e lo fanno perché vorrebbero compiere il bene ma si ritrovano a fare il male, e non per forza se ne accorgono, anzi a volte perpetrano l’errore e l’orrore perché sono convinti di essere nel giusto ed è impossibile fermarli perché sono accecati, superbi come solo i paladini sanno essere superbi, e anche perché, di fronte a loro è impossibile non domandarsi: e se avessero ragione, e chi siamo noi per dire cos’è giusto o sbagliato, ché il nichilismo di cui forse moriremo è il relativismo, la scure del sacro. 


Quando chiesero a René Girard se, come si deduceva dalla sua teoria sul sacrificio, il sacro fosse essenziale per la fondazione del sociale e se fosse impossibile tirar fuori il sacro dalla relazione con la violenza, lui rispose: “La rottura fra animalità e umanità è costituita dall’assassinio. La vittima è il primo oggetto di attenzione non istintuale. La cultura sorge come imitazione del meccanismo sacrificale nel rituale, e come differenza e distanza nei confronti della vittima, giacché sembra che la vittima appare come responsabile”. La canzone di Bianconi che apre il disco si chiama “Il Bene” e a un certo punto dice: “Penso quanto è inutile parlare ancora di umana comunità e allora andiamo via e urliamo a qualcuno che staremo sempre insieme e non dire a nessuno che quest’uomo cerca il bene”. Una ricerca che è un “piano fallimentare”.


Certi uomini sanno che il bene si cerca ma non si trova, però si fa, si può fare: lo fanno, ci provano, inciampano, passano dalla parte sbagliata, certe volte dal lato oscuro. 


Guardare la vita dal quel lato oscuro è qualcosa che abbiamo smesso di fare, o che hanno smesso in moltissimi di fare, perché a un certo punto abbiamo deciso che non si può che migliorare e che di questo miglioramento si devono incaricare le donne, perché sono migliori e lo sono sia perché migliori si nasce e loro, modestamente, ci nacquero, e sia perché hanno l’energia degli schiavi, sono nuove al potere, fresche, incontaminate, o semplicemente diverse. E’ per questo che Bianconi ha scritto un disco maschile: perché in nessun suo verso esiste il benché minimo accenno ai tratti fondanti di questa visione che abbiamo ora, di una vita che è percorso (dio, che parola odiosa, insostenibile, irritante), un percorso che volge al successo, un successo che s’ottiene disintossicandosi, ripulendosi, resistendo e, soprattutto, resistendosi. Il peggio è maschile, il meglio è femminile. La tenebra è maschile, la luce è femminile. 

 
Nel suo disco d’esordio, appena uscito, Speranza (il rapper, non il ministro!), dice a un certo punto, in una lunga requisitoria conto noti e ignoti: “Pur ca sì femmena se n’omme ‘e merda”.

 

 

Il disco si chiama “Ultimo a morire”, con quello di Bianconi non c’entra niente eppure s’intreccia, s’intreccia sul maschile, sul morire, sulla violenza, sull’usura del tempo, sull’incontrovertibilità. Ed è piuttosto inusuale che un rapper sia come è Speranza: arrabbiato senza pretesa di riscatto. Anzi, la dialettica del riscatto, a questa rottura di palle cui i rapper ci hanno abituati tale per cui la via degli empi è o una corsa all’oro (ai medaglioni d’oro, alle macchine, alle donne, alle piscine) o una corsa al rehab, che si conclude poi con la santificazione della mamma, Speranza la incenerisce in tre versi, in cui dice: “Trasimm nta galera ca tuta ra Legea, ra Zeus o ra Giova, scarpe slacciate o’ per New balance o diadora”. Intende dire che il rap italiano ha magnificato il carcere, lo spaccio, la droga, la resilienza, la periferia, e ne ha fatto non solamente cliché, ma luoghi ameni. Il nome di Speranza, che viene da Caserta e dalla Francia, è cresciuto tra i posti e non nei posti, come le top model negli anni Novanta, ma senza i soldi delle top model, a Roma ha cominciato a circolare quando, un paio d’estati fa, fece un pezzo con Margherita Vicario, “Romeo”, che faceva così: “Se non conosci la strada chiedi al prete, lui sa tutto, e se non mi vedi arrivare tu manda Rafilù” e “Caserta-Mantova in sei ore, solo d’amore non si muore”.

 

 

Ora come allora, Speranza portava la riga al lato, il gel da scugnizzo o da bambino quasi uomo che prende la prima comunione (le due cose spesso di sovrappongono nell’epica iconografica meridionale), e credeva in Dio. O almeno così s’intuiva e s’intuisce da quello che scrive. Così si raccontava. A Torpignattara, quell’estate di due anni fa, si parlava moltissimo di un concerto durante il quale Speranza avrebbe invitato a brindare il pubblico, per conto suo tuttavia astenendosi perché trovavasi in pieno fioretto. Un rapper italo-francese, che canta in francese, casertano e italiano, che da bambino ha vissuto a Behren-lès-Forbach, che circola vestito da imbranato (con la tute della Legea, mica dell’Adidas), da povero perché davvero povero, uno che quando cantava urlava come un padre, che saliva sul palco e diceva “bevete voi, io ho promesso a Gesù Cristo di non farlo”. Mica male. A Carlo Pastore di rockit, Speranza ha detto di non essere un rapper, e nemmeno un artista: “Sono soltanto uno cui piace raccontare la realtà che vive, e quella della sua gente”. 

 
E di aver fatto un disco perché di canzoni qua e là non ne poteva più, voleva un disco fisico perché “il disco deve tornare a essere un po’ sacro”. E che in questo disco ha voluto dire che è un uomo pieno di contraddizioni, contrasti, rabbia, inutilità (ha detto “cazzeggio”), e che è stanco di essere sempre incazzato. Nel disco però sembra proprio che lo sia, sempre incazzato, anche se come Bianconi ogni tanto a quell’ira si arrende, ed è bravo a raccontarne la torsione conseguente, la luce che emana. Dice di avere “il sangue caldo misto al freddo della Siberia”, di venire dalla miseria, di voler mettere “angoscia e non ansia”, di avere – ed ecco il mistico, ecco ancora il sacro – “più fedeli che fan”, di fare abuso di fisarmonica. Come Bianconi, nella sua rabbia, nell’ingiustizia che subisce e di certo ogni tanto perpetra pure, Speranza sta fermo e costruisce un punto d’osservazione. Sa che non gli spetta migliorare gli altri: gli spetta raccontarli. Mentre Bianconi dice “mi pagano per scrivere” all’interno di un pezzo in cui ammette di saper raccontare l’abisso degli altri, di conoscere gli uomini, Speranza dice che lui scrive per mettersi in pericolo e metterci in pericolo. Per questo la sua voce è un terremoto, e certe volte sembra di metallo, e le sole parti in cui c’è una tregua dal rumore che fa, sono quelle in cui fa cantare i suoi amici (uno su tutti, Rocco Gitano, uno della scena zingaresca napoletana, che canta da neomelodico su una base gipsy e rap, e sapeste come suona, e come fila, e come sa). Sempre a Pastore, Speranza ha detto: “Non punto al possesso e nemmeno alla gloria. Spero che questo disco sia un passo avanti, ma fare un passo indietro non mi farebbe alcuna paura. Ci sono già passato dal non avere nulla”. 


Certi uomini vivono per i soldi, certi altri chiedono alla polvere. 


Bianconi viene dal successo, Speranza gli va incontro. 


A nessuno dei due importa la conquista: a entrambi interessa raccontare il fallimento, la cosa per come è, l’imperfettibilità come nucleo fondante delle cose, materiali o immateriali e lo sforzo di volontà che agli uomini è richiesto di fare ugualmente per cercare di cambiare, migliorare, pentirsi, evolvere. C’è una poesia di Ted Hughes che li contiene entrambi, e che in mano agli attivisti dei diritti maschili suonerebbe come una esplicitazione della “sacrificabilità maschile”. Dice così: “Ha conquistato. Ha abbandonato tutto. Ora s’inginocchia. Sta offrendo la sua vittoria. E slacciando l’acciaio. Ha conquistato nel nome della terra”. Il cavaliere. 


Forever. Ultimo a morire.

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