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Affacciarsi dentro

Che meraviglia “Folklore”, l’ultimo album di Taylor Swift

<p>La vittoria dell&rsquo;esilio sulla nostalgia della vita prima del virus</p>

Simonetta Sciandivasci
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Folklore”, il nuovo disco di Taylor Swift è un ascolto sull’ascolto. Un cuore in inverno. Soft as snow but warm inside, come erano l’eroina e l’amore quando entrano in circolo, in un vecchio pezzo dei My Bloody Valentine. Lo ha scritto in questi mesi, mentre le sue colleghe si dimenavano su Instagram e Tik Tok per tenerci compagnia e parlare, straparlare, strafare, raccontare, senza dire mai niente. Lei no, lei zitta, buona, niente foto con la mascherina, dichiarazioni motivazionali, arcobaleni, pagnotte, pigiami. Lei se n’è stata al chiuso, s’è affacciata dentro e ha scritto che cosa vedeva. Ha lavorato, come ha sempre fatto (è una che a 17 anni aveva un repertorio di 150 canzoni: non l’ha fermata l’infanzia, figuriamoci una pandemia). Ha lavorato in quel modo che racconta in un documentario su di lei, “Miss Americana”, che è uscito a febbraio e che tutti hanno guardato perché i giornali avevano scritto che parlava dei suoi disturbi alimentari. E invece lì c’era la storia del talento, dell’onere gigantesco che è, di come renda chi lo porta un pubblico servitore. La storia di una ragazza americana che diventa pop star ed è così brava, così eccezionale, che nessuno capisce che in lei a vibrare è la vocazione, non l’ambizione. Questo disco, forse, lo mette in luce. Tira fuori la voce di un’artista che sarebbe pop, nel senso di universale, anche se scrivesse un disco su Hegel. E noi lì a prenderla per una pop star qualsiasi. Una Katy Perry. Una post Spears. Certo, è stata anche questo: ha dovuto passarci, s’è divertita, probabilmente ci ripasserà.

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Per ora ha fatto un disco folk. Non che sia una novità: è dal folk che arriva, ed è il folk che, allargandosi al pop, a volte quello più commerciale, ha sempre desiderato riscrivere, ibridare, aprire.

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Nella notte del 24 luglio scorso, senza che nessuno se lo aspettasse, ha pubblicato su Instagram le nove foto in cui è scomposto uno scatto che la ritrae in una foresta, con addosso un cappotto sformato, brutto, vestagliesco. Ha annuncia che il suo nuovo disco era pronto e sarebbe uscito in poche ore. E nonostante lo spleen, il bianco e nero, la promozione inesistente, a nemmeno un giorno dall’uscita, Folklore aveva già venduto un milione e 300 mila copie. Su Spotify è stato scaricato 79,4 milioni di volte e decine di milioni di volte su Apple Music. Non lo aveva messo in conto neanche lei: le canzoni sono arrivate e basta.

 

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È un disco sulle solite cose (l’amore, la vicinanza, la lontananza, vivere, morire, dare, perdere), viste dall’esilio. Non l’isolamento: l’esilio. Isolati siamo stati tutti, obbligatoriamente. Per esiliarsi ci voleva un atto volontario, e lei lo ha fatto. Come? Ha aperto il pianoforte e ci si è tuffata dentro. Come nel video di “Cardigan”, che è il racconto di quell’affacciarsi dentro: si tuffa nel pianoforte, arriva sulla sponda di un fiume, in un bosco fiabesco, poi vuole ancora altro, star seduta non basta e apre lo sgabello, ci si tuffa dentro, e finisce in acqua, quasi annega, c’è una tempesta, le va incontro il suo pianoforte, ci entra di nuovo dentro, torna a casa, fradicia, spaventata, finalmente pronta a parlarci. Ha avuto la sua avventura, l’ha avuta perché ha accettato di farsi suonare dal suo pianoforte, entrandoci dentro. Poteva riuscire soltanto a lei di far ascoltare a mezzo mondo un disco così pieno di neve, attesa, ombre incerte del divenire, nel pieno di un’estate che certi stanno spolpando come fosse l’ultima estate della storia dell’uomo.

  

È stato stabilito che d’estate dobbiamo essere innamorati, innamoranti, energici, festanti, smaglianti e molte altre faticosissime cose. I tormentoni estivi sono la colonna sonora di questa coazione al convivio e infatti Alessandra Amoroso ha l’ardire di cantare: “Ho voglia di cantare un reggae in spiaggia, voglia di riaverti qui tra le mie braccia, in una piazza piena per fare tutto quello che non si poteva”. E invece, forse, di quella festa mesta siamo stufi, e vogliamo starcene a casa, e affondare in un divano, o in un pianoforte, o in un fiume inventato e ostile. Non rivogliamo quello che non si poteva: vogliamo, per una volta, naufragare.

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