PUBBLICITÁ

La leggenda di Ringo Starr

Salvo Toscano

Era l’ultimo arrivato dei Beatles, ma i fan lo adoravano. Il batterista baciato dalla fortuna compie ottant’anni

PUBBLICITÁ

Chissà come sarebbero stati gli ottant’anni del signor Richard Starkey se non ci fosse stato quel 6 giugno del 1962. In quella data, le sliding doors del destino cambiarono la sua vita e in qualche misura la storia della musica pop. Non sappiamo esattamente dove si trovasse quel giorno il signor Starkey, che all’epoca avrebbe compiuto da lì a un mese ventidue anni e già si faceva chiamare Ringo, per la sua abitudine di indossare diversi anelli alle dita. La sua vita, però, cambiò proprio quel giorno, quando quattro suoi conoscenti, coetanei e concittadini, varcarono le soglie della casa discografica Emi a Londra per un’audizione. Si facevano chiamare i Beatles, avevano un discreto seguito nella loro Liverpool, un provino lo avevano già rimediato quell’anno, grazie ai buoni uffici del loro manager, il venditore di dischi Brian Epstein, giovane e raffinato omosessuale. Ma la prima audizione, il giorno di Capodanno del 1962 alla Deccca Tapes non era andata bene. I quattro ragazzi, John, Paul, George e Pete, erano stati scartati. La storia che si intreccia con la leggenda vuole che il funzionario della Decca abbia detto quel giorno al loro manager che “il tempo dei complessini è finito, signor Epstein”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Chissà come sarebbero stati gli ottant’anni del signor Richard Starkey se non ci fosse stato quel 6 giugno del 1962. In quella data, le sliding doors del destino cambiarono la sua vita e in qualche misura la storia della musica pop. Non sappiamo esattamente dove si trovasse quel giorno il signor Starkey, che all’epoca avrebbe compiuto da lì a un mese ventidue anni e già si faceva chiamare Ringo, per la sua abitudine di indossare diversi anelli alle dita. La sua vita, però, cambiò proprio quel giorno, quando quattro suoi conoscenti, coetanei e concittadini, varcarono le soglie della casa discografica Emi a Londra per un’audizione. Si facevano chiamare i Beatles, avevano un discreto seguito nella loro Liverpool, un provino lo avevano già rimediato quell’anno, grazie ai buoni uffici del loro manager, il venditore di dischi Brian Epstein, giovane e raffinato omosessuale. Ma la prima audizione, il giorno di Capodanno del 1962 alla Deccca Tapes non era andata bene. I quattro ragazzi, John, Paul, George e Pete, erano stati scartati. La storia che si intreccia con la leggenda vuole che il funzionario della Decca abbia detto quel giorno al loro manager che “il tempo dei complessini è finito, signor Epstein”.

PUBBLICITÁ

 

La seconda chance per i ragazzi di Liverpool arrivò dunque a giugno. La Emi li affidò alle cure di George Martin, un musicista colto e intelligente, una quindicina di anni più grande dei quattro ventenni di Liverpool. Guidava una etichetta minore della Emi, la Parlophone, riservata prevalentemente all’incisione di dischi umoristici. Martin ascoltò i Beatles con attenzione. Era un appassionato di musica classica, un pianista strutturato, li trovò “piuttosto orribili” per il loro stile grezzo. Ma scorse nei ragazzi di Liverpool qualcosa, un lampo di talento, una sorta di forza brutale e naturale che pulsava nelle loro note. E li scritturò.


Richard Starkey, nato a Liverpool il 7 luglio del 1940, all’epoca dei fatti suonava la batteria ma in un’altra band


 

Il nostro uomo, Richard Starkey, nato a Liverpool il 7 luglio del 1940, all’epoca dei fatti era altrove. Suonava la batteria ma in un’altra band, la più apprezzata nella scena locale musicale della città portuale del Merseyside, Rory Storm and the Hurricanes. Non poteva immaginare Ritchie Starkey – che con le bacchette in mano diventava Ringo Starr – che a Londra quel giorno si stesse innescando un meccanismo che avrebbe cambiato la sua vita, trasformando in cigno il brutto anatroccolo e consegnando il suo nome e la sua esistenza alla storia.

 

PUBBLICITÁ

George Martin all’epoca aveva 36 anni, era elegante e compassato. Ma anche franco e schietto. E ai ragazzi parlò chiaro: il loro batterista non gli piaceva. Un bel guaio, perché quel batterista, si chiamava Pete Best, era con John, Paul e George da sempre. Addirittura era stato nel locale di sua madre che i ragazzini di Liverpool avevano dato i loro primi concertini. Mamma Mona li chiamava “il complesso di Pete” all’epoca. Pete era belloccio, biondo, occhi chiari, un ciuffo rockabilly e pose da ganzo, piaceva alle ragazze. Era un bel tenebroso, schivo, taciturno, poco incline al senso dell’umorismo che caratterizzava gli altri membri della band. Quando i quattro avevano lavorato per un anno in Germania, avevano fatto amicizia con una fotografa, Astrid Kirchherr, che li aveva convinti a cambiare pettinatura e adottare il caschetto che lei portava. Pete era stato l’unico a non farlo. Martin avvertì che in quel ragazzo non ancora ventunenne, che stava per salire su un treno che lo avrebbe portato su fino alle stelle e che avrebbe potuto fare di lui una delle più famose popstar di tutti i tempi, in quel ragazzo si trovava l’anello debole della catena. Nessuno potrà mai dire se la sua intuizione fu giusta. Ma di certo c’è che quel giorno la vita di Pete Best cambiò (perché la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo, per citare Freak Antoni), e che venne piantato il seme perché la vita di qualcun altro facesse altrettanto. Ringo Starr quel giorno non lo sapeva ma qualcuno stava stampando per lui un biglietto della lotteria ultramilionario col suo nome e cognome scritto sopra.

PUBBLICITÁ

Gli adolescenti lo adoravano perché si rispecchiavano in lui, con quel suo apparire semplice, quel suo non essere un adone


 

“Ci comportammo da vigliacchi quando si trattò di cacciarlo”, disse anni dopo John Lennon parlando di Best. I ragazzi, infatti, decisero che il vecchio amico, con cui avevano condiviso quegli anni di gavetta, non poteva sbarrare loro la strada per un ingaggio e un disco vero, col loro nome in copertina. Licenziarono Best quell’estate (più di trent’anni dopo, quando furono pubblicati i primi nastri della band con Best alla batteria pare che gli sia stato staccato un assegno di indennizzo di qualche milione di sterline). E i Beatles si cercarono un nuovo batterista. Non ci misero tanto. Perché erano quattro “scousers” (il nome gergale con cui si chiamano gli abitanti di Liverpool) sbarbati e il loro orizzonte di conoscenze era alquanto ristretto. A Liverpool all’epoca, se pensavi a un batterista, il primo che ti veniva in mente era quello della band più tosta del momento, quella di Rory Storm. E così la scelta cadde su Ringo, che i tre Beatles conoscevano, si erano anche incrociati ad Amburgo, e di cui apprezzavano la simpatia. Piccolo, voce scura, un grosso nasone e due occhi chiari e vagamente tristi (così lo avrebbero chiamato, il Beatle triste), Ringo era una ragazzo semplice con un sorriso dolce, un amicone a cui era facile volere bene. 

 

 

Ad agosto, Ritchie divenne un beatle. Esattamente due mesi prima dell’uscita del primo disco del quartetto. E quattro mesi prima dell’inizio della scalata al tetto del mondo, che avrebbe portato la band di Liverpool nel giro di poco più di un anno a divenire il più grande fenomeno musicale di tutti i tempi. E dire che l’avventura non la iniziò proprio col piede giusto. Quando i primi di settembre la band registrò il suo primo singolo, “Love me do”, l’emozione lo tradì. Martin non fu soddisfatto e consegnò le bacchette a un turnista, Andy White, relegando Ringo al tamburello. Ma malgrado quel primo passo falso, il piccolo Ringo conquistò molto rapidamente l’affetto e la stima dei compagni di lavoro.


A George Martin il loro batterista non piaceva. Un bel guaio, perché Pete Best era con John, Paul e George da sempre


 

Ringo Starr salì sul treno per la gloria all’ultimo secondo. Solo un anno e mezzo dopo quell’estate, il suo nome era sulla bocca di deliranti folle di ragazzine americane, quelle che accolsero i Beatles al loro arrivo negli Stati Uniti, l’evento che trasformò la Beatlemania da fenomeno britannico a mondiale. Il piccolo batterista, più basso e meno di bell’aspetto degli altri compagni di strada, divenne ben presto un beniamino del pubblico. C’è una scena nel film “A hard day’s night” del 1964, in cui i Favolosi quattro ricevono la posta delle ammiratrici. John, Paul e George fanno il pieno di lettere, Ringo resta all’asciutto, ma pochi secondi dopo arrivano le sue, che sono più numerose di quelle degli altri tre messe insieme. La gag aveva un fondamento di verità: Ringo era adorato dai ragazzi. Una volta in America un presentatore chiese ai giovani del pubblico di gridare il nome del loro beatle preferito, e “Ringo” fu la parola che si udì più nitidamente. Quel suo apparire semplice, quel suo non essere un adone, quel suo carattere gentile da ragazzo della porta accanto, portavano i teenager a riconoscersi in lui, a rispecchiarsi nell’uomo comune che ce la fa con un piccolo aiuto dei suoi amici, come avrebbe cantato il batterista nel 1967, in quel gioiellino di “A little help from my friends” scritta apposta per lui da Lennon e McCartney. I due soci gli avevano già fatto cantare “Yellow Submarine” l’anno prima, una canzone per bambini, un successo planetario. La voce di Ringo, molto più bassa di quella dei tre soci, era perfetta per quel tipo di melodie. Nel 1968 Lennon gli affidò il canto della deliziosa ninna nanna che compose per il figlio Julian di cinque anni, “Good night”, Ringo ci mise il cuore, una specie di zio ideale che ogni bambino vorrebbe avere.

 

Lo scorso 7 luglio sir Ringo Starr (la Regina lo ha fatto cavaliere qualche anno fa) ha compiuto ottant’anni, il primo beatle a raggiungere questo traguardo. Lennon, ucciso a quarant’anni da uno squilibrato, li avrebbe compiuti il prossimo 9 ottobre. A Ringo hanno fatto festa in mezzo mondo, tutto all’insegna del suo motto, “peace and love”, pace e amore (pronunciato con le dita a “V”, alla Chirchill). Il vecchio Ritchie è ancora un beniamino. Un po’ snobbato in passato dai critici, il tempo è stato galantuomo con lui e gli ha visto riconoscere anche dagli addetti ai lavori una straordinaria qualità da batterista. Non aveva i colpi travolgenti di un Keith Moon o la tecnica insuperabile di un John Bonham ma Ringo era un metronomo umano, non sbagliava mai. Un dipendente della Emi ammalatosi di cancro ascoltò tutti i nastri incisi dai Beatles nei loro sette anni di attività, catalogandoli. Ne venne fuori un libro fortunatissimo, poi scritto da Mark Lewisohn. Ebbene, in quelle ore e ore in studio, tra centinaia a centinaia di errori che facevano ricominciare da capo le registrazioni, non era mai Ringo a sbagliare, mai. Sapeva tenere il ritmo e soprattutto, gli riconoscono oggi grandissimi batteristi, sapeva “stare dentro la canzone”, come nessuno, cioè sapeva sentire il mood del pezzo e accompagnarlo in modo adeguato. Come in “A day in the life”, forse il capolavoro assoluto del quartetto, dove la sua batteria diventa un pilastro della canzone. O in “Come together”, con quel giro famosissimo che ancora oggi chiunque prenda in mano le bacchette impara a suonare.


Sapeva tenere il ritmo e soprattutto, gli riconoscono oggi grandissimi batteristi, sapeva “stare dentro la canzone” 


 

Amico di tutti, continuò a collaborare con i tre ex soci nei loro anni da solista. Gli amici gli scrissero canzoni, lui suonò nei loro dischi. Impossibile non amarlo. Anche negli ultimi anni della band, quando il nervosismo si tagliava col coltello, lui si tenne fuori dai litigi. Solo una volta si arrabbiò, durante le registrazioni dell’Album bianco e disse che lasciava la band. Nei giorni successivi i Beatles incisero due canzoni (“Back in the Ussr” e “Dear Prudence”) con Paul McCartney alla batteria. Poi Ritchie sbollì, tornò e trovò la sua leggendaria batteria ricoperta di fiori e della scritta “Bentornato Ringo”. Gli volevano bene davvero. E tanti ancora ne vogliono a quel piccolo grande uomo di ottant’anni baciato dalla fortuna.

PUBBLICITÁ