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Prima venivano le note, poi il pianoforte. Alla scoperta del genio gentile del maestro

<p>Morricone voleva fare il medico, fin&igrave; per trasformare melodie canticchiate distrattamente in successi internazionali. Voci e testimonianze</p>

Marianna Rizzini
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Roma. “Io Ennio Morricone sono morto”. Non c’è la musica, sotto al necrologio scritto dal compositore e premio Oscar per sé medesimo, ma è come se ci fosse, ed è come se si sentisse crescere piano piano, leggendo le parole che Morricone ha pensato prima di andarsene, uno degli indimenticabili fischi o ululati o assolo vocali in un film del suo amico Sergio Leone. Solo che qui il tema ricorrente non è per un buono, un brutto, un cattivo. Il tema è il suo: “C’è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare”. E’ la sua vita senza di lui, ma con lui a dirigere l’orchestra. E quando, al mattino, l’auto-necrologio fa la sua comparsa sugli schermi dei cellulari, quasi non sembra vero, “come non sembrava vero”, ricorda un amico del suo amico e regista Gillo Pontecorvo, “che Morricone avesse potuto riprodurre come per telepatia, al pianoforte, in un minuto, l’incomprensibile melodia canticchiata da Pontecorvo per le scale, mentre saliva a casa del compositore, per spiegargli che cosa avesse in mente per ‘La Battaglia di Algeri’”. E Morricone gli aveva detto qualcosa come: vieni vieni che ho già una cosa pronta, e poi invece gli aveva suonato il tema del film, quasi uguale a quello appena accennato dal regista, ma trasfigurato dal suo genio. E il regista era rimasto esterrefatto. Fatto sta che un Morricone scherzoso aveva avvertito la moglie di Pontecorvo: gli dirò la verità solo se prenderà il Leone d’oro, cosa che aveva poi fatto, visto che il Leone era arrivato.

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E si sentiva musicista ma non solo, Morricone, che da piccolo avrebbe voluto fare il medico ed era bravissimo come calciatore nonché come scacchista, racconta Antonio Monda, scrittore e direttore artistico della Festa del Cinema di Roma: “Era convinto che i grandi musicisti fossero anche grandi scacchisti e aveva ‘pattato’ una partita a scacchi con il campione russo Boris Spasskij”. Sul metodo di lavoro di Morricone, dice Monda, “una persona non esperta poteva restare sorpresa: io per esempio ero convinto che si sedesse al pianoforte come prima cosa. Macché: scriveva lo spartito, sulla base della musica che aveva in testa, e solo dopo suonava. Né faceva distinzione tra grandi e piccoli registi: un lavoro era un lavoro punto”.

 

  

Chi entrava in casa sua – la grande casa tra ghetto e Campidoglio dove Morricone ha vissuto per molti anni – ricordava sempre qualche particolare inatteso: “La pista da jogging interna, con nastro adesivo a segnare il percorso sul parquet”, dice Monda; “la stanzina piccola piccola in cui si rifugiava con tutti i suoi fogli”, dice Laura Delli Colli, critico cinematografico e presidente della Fondazione Cinema per Roma. Una volta, ricorda Delli Colli, “Morricone durante un’intervista su altro argomento era scomparso in quello studiolo nascosto, e ne era emerso dicendomi: ‘Ti faccio sentire un tema a cui sto lavorando, segretissimo’. Era il tema di ‘La miglior offerta’ di Giuseppe Tornatore”. Poi c’era il Morricone romano – romano al punto da volere restare a Roma quando Hollywood lo avrebbe voluto fisso sulle rive dell’Oceano. E il fatto di essere romano lo legava a Carlo Verdone, pupillo suo e di Leone ai tempi di “Un sacco bello” e “Bianco, rosso e Verdone”. E con Verdone, qualche tempo fa, Morricone aveva composto una doppia intervista-video al Messaggero, a colloquio con Gloria Satta e Alvaro Moretti, una sorta di ideale “sinfonia per Roma”, raccontando l’amore sconfinato per la città: Verdone al di là dei bidoni di spazzatura sotto la porta, Morricone commuovendosi all’idea di dovere salvare la città dal degrado. E si erano divertiti a pensare al “suono che fa Roma”: gabbiani? fontane? diceva Verdone, e Morricone pensava soltanto a un nome, quello di Ottorino Respighi, e poi di nuovo gli venivano le lacrime agli occhi mentre recitava una poesia di Ghigo De Chiara che parlava di scirocco e nuvoloni gonfi di pioggia che non vuole scendere: “Lassame fracicà”.

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E raccontava di quando Quentin Tarantino gli aveva proposto di fare le musiche per “The Hateful Eight”, e Morricone, prima riluttante, si era infine arreso: “Va bene, lo faccio”, aveva detto: “L’ho fatto, e Tarantino si aspettava tutt’altra musica: io non ho fatto musica per western. Ho fatto un pezzo sinfonico diviso in quattro parti, lungo mezz’ora, e con quello ho preso l’Oscar”. E lo diceva un po’ sorridendo un po’ no, come quando aveva ringraziato per l’Oscar leggendo “buonasera signori e signore” da un foglietto, con un’aria schiva, inusitata per il contesto trionfale: “Morricone era gentile perché sapeva che cosa fossero le persone”, dice il regista Daniele Luchetti, che si è trovato un giorno a intervistare il compositore davanti agli studenti del Centro sperimentale di Cinematografia: “Parlavamo di creatività, di come funziona il momento in cui un artista trova l’ispirazione. E lo ascoltavano, ma io davvero non so dire che cosa ci fosse dietro al suo genio. Forse il fatto di non essere un artista maledetto ma benedetto: benedetto dal talento, dall’amore, dalla modestia. Da dove venissero le sue intuizioni sbalorditive non so, so però che riusciva a toccare corde profonde. Fai ascoltare la sua musica a un bambino: rimane incantato. Morricone aveva la gentilezza di chi rispetta il lavoro – come un Bach si metteva lì e componeva, componeva, componeva – e di chi si avvicina a chi gli sta di fronte con il cuore, prima che con la mente”.

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