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Il gran ballo dei vivi

Marinella Guatterini

L’opera che ha celebrato la fine dell’Oscurantismo, cioè della pandemia, è nata alla Scala nel 1881. E ora è lì che “Excelsior” vorrebbe tornare

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Fateci caso: non esiste città italiana di grandi, medie e anche piccole dimensioni che non vanti un suo hotel Excelsior. Possiamo collegare questa espressione latina che letteralmente significa “più in alto” e sottintende, per le strutture alberghiere, il massimo dell’eleganza e del buon gusto, all’“Azione Coreografica, Storica, Allegorica, Fantastica in 6 parti e 11 quadri” che Luigi Manzotti, coreografo patriota e umbertino, varò l’11 maggio 1881 al Teatro alla Scala con l’altisonante titolo di “Excelsior”? Probabilmente no. Eppure il termine “excelsior” ronza nelle orecchie nazionali, e forse non solo, sin da quella fin de siècle, coincidente tra l’altro con l’Expo numero uno, la prima esposizione italiana del lavoro e della produzione.

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Fateci caso: non esiste città italiana di grandi, medie e anche piccole dimensioni che non vanti un suo hotel Excelsior. Possiamo collegare questa espressione latina che letteralmente significa “più in alto” e sottintende, per le strutture alberghiere, il massimo dell’eleganza e del buon gusto, all’“Azione Coreografica, Storica, Allegorica, Fantastica in 6 parti e 11 quadri” che Luigi Manzotti, coreografo patriota e umbertino, varò l’11 maggio 1881 al Teatro alla Scala con l’altisonante titolo di “Excelsior”? Probabilmente no. Eppure il termine “excelsior” ronza nelle orecchie nazionali, e forse non solo, sin da quella fin de siècle, coincidente tra l’altro con l’Expo numero uno, la prima esposizione italiana del lavoro e della produzione.

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Una volta diventato eccellente mimo-ballerino della Scala, Luigi Manzotti divenne metteur en scène nel 1863

Tanto disarmato di spirito autocritico, quanto vitalisticamente aperto alle infinite possibilità di rinascita grazie al connubio tra Scienza e Progresso, alla vittoria del Genio dell’umanità (la Luce) e della Civiltà sul protervo Genio delle tenebre (l’Oscurantismo), il “ballo grande” di Manzotti e dei suoi fedelissimi Romualdo Marenco (compositore) e Alfredo Edel (scenografo e costumista), sembra stigmatizzare ancora oggi speranze e aspettative in un mondo post coronavirus migliore. Pura illusione? Possibile. Tuttavia non è un caso se il Teatro alla Scala ha cominciato il suo ciclo di ballettistiche riprese televisive proprio da “Excelsior” (nella sua seconda edizione, nata nel 1967) e se davvero potrà riaprire i battenti in settembre, si ventila ne inserirà una parte in un Gala. Di sicuro non mancherà il finale con la Quadriglia allegorico-fantastica delle Nazioni. Qui i ballerini attraversano veloci il palcoscenico seguiti da danzatrici con l’elmetto piumato da bersagliere: trionfanti sventolano tutti bandiere mondiali nel segno di un’auspicabile (e questa sì, quanto mai lontana) fratellanza tra i popoli. Manzotti esulterà, ovunque si trovi in quell’aldilà in cui, da laico, forse non credeva.

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Lui, milanese, nato il 2 febbraio 1835, figlio di un verzuratt (fruttivendolo, nel dialetto meneghino) e sempre vantatosi di essere tale, aveva dato inizio alla sua carriera, ancora bambinetto, nella bottega del padre. Tra rapanelli e cespi di lattuga, pomodori e gambi di sedano che forse già brandiva come fossero scettri da monarca, fantasticava, il piccolo Luigi, di costruire grandi affreschi pro patria. La fortuna lo baciò in fronte. Una volta diventato eccellente mimo-ballerino della Scala, non si accontentò di surclassare i suoi rivali: divenne metteur en scène nel 1863, e con Pietro Micca (1871) e Galileo Galilei (1873), azioni coreografiche in omaggio alla neonata Unità d’Italia, anticipò “Excelsior” che calzò come un guanto il famoso motto “fatta l’Italia restano da fare gli italiani”.

 

Per raggiungere lo scopo, Manzotti ricaricò il suo “teatro della memoria” anticipandolo, a sipario chiuso, con una propria reboante perorazione sulla necessità del Progresso e della Scienza. Nel susseguirsi a catena di quadri dedicati all’invenzione del battello a vapore, sperimentato da Dionisio Papin e perfezionato da Fulton sulla rotta New York- Albany (1807), alla pila di Alessandro Volta che favorì Samuel Morse nell’inviare il primo telegramma da Washington (1844), al taglio dell’istmo di Suez (1869) e allo scoppio della mina, madre del traforo del Moncenisio (1871), si intrufolava un’incessante lotta tra il perdente Oscurantismo, ancora figlio dell’Inquisizione, e la vittoriosa Luce. In fine all’aerea Civiltà spettava trasformare lo Schiavo del popolo della sabbia in Uomo libero nel conclusivo tripudio di una fantasmagorica apoteosi: tanto colossale che alla première si ebbe seriamente a temere che il palcoscenico scaligero potesse sostenere il suo gran carico di carne e ossa.

 

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Cinquecentootto comparse, seicento interpreti principali, più altri minori, spesso utilizzati in doppi ruoli, e anche molti animali

Cinquecentotto comparse, seicento interpreti principali, più altri minori, spesso utilizzati in doppi ruoli, con i protagonisti e molti animali, popolavano una scena dai fasti barocchi. Il venticinquenne Alfredo Edel disegnò oltre seicento, magnifici, bozzetti di diverse etnie. Romualdo Marenco, compositore garbato, e tuttora gloria della nativa Novi Ligure, creò una musica farcita di galop e mazurke e con una fanfara dal vivo chic e pop. Quanto a Manzotti: con il suo dispotico rigore, la sua visione di meccanismi umani mossi “a orologeria”, riuscì a controllare quell’iperbolica massa con una tale precisione che alla fine dello spettacolo fece esultare e piangere gli arcigni palchettisti, i facoltosi frequentatori delle poltrone di platea e il popolino del loggione. “Fuori, Piazza della Scala, la Galleria e Piazza del Duomo sfoggiavano”, scrive Vittoria Crespi Morbio, “le più fastose luminarie a gas che Milano avesse mai visto”. Lo scenario cittadino sembrava la proiezione in grande di quel centone transgenerazionale che sarebbe diventato il balletto italiano più rappresentato nel mondo, con un record di recite tuttora imbattuto.

 

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A Parigi, nel 1883, inaugurò il nuovo Éden Théâtre: con un allestimento costato l’astronomica cifra di 300.000 franchi rimase in scena per 300 repliche, e all’Imperiale di Vienna fu tenuto in cartellone addirittura per due anni consecutivi. Nel frattempo trionfò in Spagna e a Londra; arrivò in Russia; varcò l’Oceano per raggiungere le due Americhe, e nella sola New York, al Niblo’s Garden, toccò le 100 serate. Inoltre, come nella consuetudine del tempo, passò dai velluti teatrali alla ribalta delle marionette. Nel 1913 fu filmato da Luca Comerio, celebre pioniere del cinema muto: ce ne restano quattordici eclatanti minuti! Peccato che in quell’anno Manzotti fosse già morto. Scomparso tra i vivi – spirò settantenne vittima di “un indomabile attacco di idropisia”, alle Idi di marzo del 1905 – si era già defilato pure dal suo stesso cult-ballet. Iperattivo, dopo averne compilato una dettagliatissima “partitura” (tre sue meravigliose trascrizioni, di Giovanni Cammarano, Ernesto Casati ed Enrico Cecchetti, sono conservate al Museo Teatrale alla Scala) per tutelarsi dalle possibili infedeltà di ripetitori e nuovi ballerini sparsi nel mondo, volle estenderlo, sempre con Marenco ed Edel, in una trilogia. “Amor” (1886), titolo palindromo (Roma), e “Sport” (1897), i due nuovi “balli grandi” non ottennero, però, i trionfi sperati e la fama di Manzotti cominciò a declinare, nonostante “Excelsior” continuasse la sua corsa, sopravvivendogli sino agli anni Trenta del XXI secolo.

 

Al termine della sciagura nazifascista, cominciarono a emergere, in un crescendo rossiniano, critiche anche feroci. Il kolossal monstre divenne capro espiatorio della peggior coreografia italiana: l’emblema della sua decadenza. Gli si rimproverò di essersi immesso nella tradizione scaligera, per altro mai venuta meno, dei pure mastodontici “coreodrammi” di Salvatore Viganò – il maggior coreografo italiano d’inizio Ottocento, ma senza eguale poesia e intensità di sentimenti. Inoltre, non somigliava affatto alle coeve meraviglie tardo-romantiche del geniale Marius Petipa, (l’autore del “Lago dei cigni”) e di ČMajkovskij! Le critiche più benevole lo descrissero come un preistorico “Rave delle bisavole” in tempi ancora segnati da analfabetismo, bracciantato, malaria endemica.

 

Nel novembre 1966, dopo l’alluvione di Firenze, il sovrintendente del Maggio Musicale volle allestire un “Excelsior 2”

Eppure se si dimenticano le successive e sbaraccate “magnifiche sorti e progressive” della borghesia umbertina con gli spari di Bava Beccaris, e l’assassinio anarchico di Umberto I, scopriamo che l’utopia di quest’unicum nella storia teatrale italiana – con le file delle sue innumerevoli ballerine, fatte scendere e salire da scale alla Wanda Osiris – anticipò la rivista e il musical considerati appannaggio anglosassone, mentre l’idea tutta manzottiana di pura decorazione dello spazio ebbe importanti ripercussioni nel cinema hollywoodiano con le piramidi umane e i giochi d’acqua di Busby Berkeley. Difficile dimenticare anche la conoscenza della tecnica accademica di scuola italiana del coreografo verzuratt e lo stile “pre-liberty” in cui la immise. Per fortuna di tutto ciò si rammentò l’impresario Remigio Paone.

 

Nel novembre 1966, l’anno della devastante alluvione di Firenze, l’allora sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino decise che la città, depressa e sconsolata, avesse bisogno di un vigoroso “tiramisù” e decise, per la riapertura del Teatro Comunale, di allestire un “Excelsior 2”. Paone consegnò la non facile impresa a un raffinato concertatore: Filippo Crivelli, capace di spaziare dalla prosa alla lirica, dall’operetta alle commedie brillanti. Dopo la defezione di Léonide Massine, ex coreografo dei Ballets Russes, il regista si affidò all’estro creativo di Ugo Dell’Ara, la cui suocera Matilde Schwerz, aveva danzato “Excelsior” dal 1911 al 1928, e si ricordava ogni cosa. Per le musiche scelse il compositore Fiorenzo Carpi, molto vicino a Giorgio Strehler e al Piccolo Teatro di Milano; per le scene optò per il talentuoso Giulio Coltellacci. Unico sopravvissuto del nuovo quartetto di autori, Crivelli rammenta ancora l’agitazione del momento, in specie per la brevità della consegna: solo tre mesi.

 

Per impersonare lo Schiavo, oggi sempre interpretato da étoile come Roberto Bolle, l’impresario voleva Rudolf Nureyev ma il divo rifiutò

“Si iniziò a lavorare nel gennaio 1967; Coltellacci creò in breve tempo il meccanismo scenico; Dell’Ara decrittò il quaderno manzottiano trascritto da Cammarano, mentre correggeva il portamento, le pose, lo stile dei ballerini fiorentini, così lontani dall’originale, ma riservandosi parecchia libertà d’azione. Quanto ai costumi – cinquecento –, furono affidati a ben cinque sartorie: Tirelli, Mayer, ‘Anna Mode’, Cerratelli e ‘Anna Maria’, famosa per le mises della Osiris”. Paone esternava con veemenza i suoi capricci: congrui e incongrui. Per impersonare lo Schiavo, oggi sempre interpretato da étoiles famose come Roberto Bolle, l’impresario voleva Rudolf Nureyev ma il divo rifiutò, e il ruolo passò al pur bravo Attilio Labis. Per la Civiltà pretese la Fracci: la star tentennava e forse accettò solo dopo aver saputo che il ripiego sarebbe potuto essere la squisita étoile russa Ekaterina Maximova. Assetato di clamore, Paone s’impuntò sul personaggio della Luce poco danzante e molto mimico. “Ad ogni costo esigeva una regina popolarissima: Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Lisa Gastoni o Gianna Maria Canale… Tutte si ritrassero: impegnate o intimidite dalla desueta offerta”. Così Crivelli estrasse dal suo magico cappello da prestidigitatore Ludmilla Tcherina: splendida nel film “Scarpette Rosse”. Si recò a Parigi e la diva sempre charmante ma oramai matura accettò a patto di poter danzare. Rapito dal suo fascino, Paone acconsentì e Dell’Ara dovette cucirle addosso un ruolo in scarpette da punta. Ma la Civiltà era sempre al centro della scena, e molto più attiva. Così tra le due dive scattò una buffa rivalità. “La Tcherina portava sempre con sé un gran sacco di scarpette e le cambiava a ogni passo, e chiamava la Fracci ‘cette petite femme-la’; Carla non salutava Ludmilla… Il clima generale però non ne risentì”. Rimase festoso sino al debutto, nel maggio 1967, e ben oltre quando il successo lo rigettò nel grande grembo scaligero e dal 1974 restò il suo coreutico fiore all’occhiello.

 

Sempre richiesto a ogni squillo di tromba celebrativa, l’“Excelsior 2” vantò ancora nel 2001 la presenza della Fracci. Nel ruolo della Luce si fece confezionare da Dell’Ara (scomparso nel 2009) un passo a tre assieme allo Schiavo e all’Oscurantismo. Con questa novità si presentò al Palais Garnier di Parigi nel 2002 e fu accolto trionfalmente. Nove anni dopo, il revival addolcito da alcune varianti – la voce del prologo non più affidata al tonitruante Alfredo Bianchini, bensì al meno enfatico Edoardo Borioli – inaugurò il rinnovato Teatro Bolshoi di Mosca. Stupore, applausi, commozione e un nuovo record di recite, prossimo alle 300, anche per il secondo “ballo grande”. Capace di cogliere lo spirito dell’originale, con raffinatissima e calcolata ingenuità ed ironia, di cambiarne il linguaggio ma senza sopprimere nulla-, era diventato un nuovo pezzo di storia italica. Un doppione imperdibile, più che un falso d’autore.

 

L’Oscurantismo in calzamaglia nera, da scheletro, vi veicola con gesti drammatici una grande tensione, soprattutto nelle mani più volte battute sul petto per trattenere la potenza che sta per venirgli meno. La Luce, vestita di bianco, con le braccia quasi sempre protese al cielo, mantiene un atteggiamento fiero per tutta la durata del balletto. E la Civiltà riassume nei suoi movimenti leggiadri la flessuosità quasi liberty e la morbidezza della vecchia scuola italiana del balletto. Inequivocabile la sua posa d’avvio e di chiusura nel pas de deux con lo Schiavo quando, davanti al partner in ginocchio, si getta con il viso e le braccia sul suo torace, quasi a esemplificare l’idea di una prigionia vinta dalla sua forza etica. Guardiamo con occhi bambini la polka di otto coppie di postiglioni e contadinelle; ammiriamo il vivace galop di sedici fattorini del telegrafo: in fila per quattro sventolano telegrammi e formano un quadrilatero ove al centro si muove, tutta blu, la Folgore. Fantastiche le danzatrici con le gonne abat-jour illuminante dal di dentro e nella danza indiana quanta tenerezza per i piccoli africani (allievi della Scuola di Ballo scaligera) accovacciati in cerchio: con la faccia color cioccolato accompagnano, tamburo al collo, le sinuose voluttà della vestale.

 

Non è certo che rivedremo tutto ciò dal vivo e in tempi brevi alla Scala, né pare possibile che l’“Excelsior 2” a spicchi celebrerà la fine del coronavirus, di cui è solo assodato che la “Messa da Requiem” di Verdi onorerà le morti nel Duomo di Milano. Quanto all’esuberante Quadriglia delle Nazioni: resta l’augurio che prima o poi possa riaccendere in un bel Gala la Luce del balletto scaligero dopo l’Oscurantismo del lockdown.

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