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Le sette vite di Rita

Maurizio Stefanini

Altro che populista e sovranista. La Pavone fu amata da Palmiro Togliatti e da Umberto Eco. Anticipò la rivoluzione sessuale. E ora torna a Sanremo

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In 58 anni di carriera ha venduto 50 milioni di dischi, incisi in sette lingue diverse: il primo milione quando aveva appena 18 anni. E’ stata la seconda delle otto cantanti pop italiane che è riuscita a entrare nella hit parade inglese. Torna a Sanremo dopo 48 anni, e poco prima di un 75esimo compleanno che arriverà il 23 agosto. E una domanda improvvisamente turba il paese: Rita Pavone è di destra o di sinistra?

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In 58 anni di carriera ha venduto 50 milioni di dischi, incisi in sette lingue diverse: il primo milione quando aveva appena 18 anni. E’ stata la seconda delle otto cantanti pop italiane che è riuscita a entrare nella hit parade inglese. Torna a Sanremo dopo 48 anni, e poco prima di un 75esimo compleanno che arriverà il 23 agosto. E una domanda improvvisamente turba il paese: Rita Pavone è di destra o di sinistra?

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Nell’epoca dei social, colpa di qualche post forse infelice. Più che altro un paio: il ritwittaggio di un tizio che si domandava come mai non ci fossero “vù cumprà” sulla Rambla di Barcellona nel giorno dell’attentato jihadista; una definizione di Greta Thunberg come “personaggio da film horror”. Ma che cantava il suo personaggio più famoso? “La storia del passato / ormai ce l’ha insegnato / che un popolo affamato / fa la rivoluzion / ragion per cui affamati / abbiamo combattuto / perciò buon appetito / facciamo colazion”. Marxista, feuerbachiana e brechtiana assieme! L’economia come motore della storia; l’uomo è quel che mangia; prima la trippa poi la virtù. Anzi, anche gramsciana, visto che il Giannino Stoppani da lei interpretato contro le ipocrisie dei grandi rivendicava gli ideali di un Risorgimento incompiuto. Perfino anticipatrice del gender, la diciannovenne che nel memorabile sceneggiato-musical tv del 1964 interpretava un ragazzino. “La mamma da giovane era un uomo”, raccontava lei su quel che dicevano i suoi figli quando rivedevano quella storia. Nel romanzo “Il giornalino di Gian Burrasca” di Vamba trasposto per la tv da Lina Wertmüller c’era pure un tocco di scetticismo conservatore alla Roberto Michels. Cosa era infatti quel cognato socialista avvocato Maralli – “opportunista in città, bigotto in campagna” interpretato da Arnoldo Foà – se non un magnifico esempio di quella “legge ferrea dell’oligarchia” per cui comunque i contestatori finiscono sempre per diventare a loro volta casta? Ma questo ormai, nell’epoca dei Cinque stelle al governo, non è neanche più di destra o di sinistra. E’ solo amara cronaca. 


“La mamma da giovane era un uomo”, raccontava lei su quel che dicevano i suoi figli quando rivedevano quella storia


 

 

In una Italia che per faziosità è ben peggio che ai tempi dei guelfi e ghibellini, Rita Pavone è diventata bandiera polemica in contrapposizione a Rula Jebreal. “Sanremo. Tra i big in gara anche Rita Pavone. Lo capite adesso perché non hanno voluto una co-conduttrice intelligente, istruita, musulmana e col marito ebreo? #RitaPavone”, è stato il tono di un post critico online. In realtà Teddy Reno in Pavone, come lo ribattezzarono scherzosamente dopo il matrimonio, è pure lui di famiglia ebraica. Anzi, essendo classe 1926, ha fatto in tempo a vivere le leggi razziali e i rastrellamenti delle Brigate Nere. Detenuto nel penitenziario di Codigoro nel dicembre del 1944, dopo essere riuscito ad approfittare della confusione per “filtrare” dai detenuti politici ai comuni, si mise a cantare per i carcerieri, con trionfo strepitoso. “Il mio debutto fu la mia salvezza, mi salvò la vita”, ha ricordato. “E da allora salire su una scena non mi ha più fatto paura”.

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“Mi hanno chiamata per cantare e non per rappresentare una parte politica nella quale non mi riconosco, perché non mi riconosco in nessuna parte politica”, ha cercato ora di difendersi Rita Pavone, pur aggiungendo di sentirsi “liberale”. E poi: “Anche Togliatti era un mio fan e veniva ai miei concerti. Avrei dovuto rifiutare le lodi di Togliatti? E ora dovrei rifiutare quelle di Salvini? State sicuri che io non ho santi protettori. Se li avessi non sarei rimasta fuori da Sanremo per tutti questi anni”. La cosa è stata subito confermata da Marisa Malagoli: la figlia adottiva di Nilde Iotti e di Palmiro Togliatti, sorella di quell’Arturo operaio ventenne che era stato il 9 gennaio 1950 una delle sei vittime dell’eccidio delle Fonderie riunite di Modena. Ora psicologa clinica e docente alla facoltà di Psicologia della Sapienza, ha testimoniato che “il Migliore riteneva la Pavone e Mina brave cantanti rappresentanti le nuove leve”. 


L’icona di un paese in cui il Boom stava per far scoppiare le contraddizioni di una società non cresciuta quanto l’economia


 

Rita esordisce nel 1962 al Festival degli sconosciuti di Ariccia il cui patron, Teddy Reno, dopo essere stato il suo Pigmalione diventerà anche suo marito. Togliatti muore nel 1964. L’anno in cui esce il Giornalino di Gianburrasca e quello in cui Rita Pavone finiva come personaggio chiave di “Apocalittici e integrati”, il saggio in cui Umberto Eco si consacrava al mito di guru della semiologia, in attesa di conoscere un secondo travolgente successo come giallista del “Nome della Rosa”. “La Pavone e Superman a braccetto di Kant” fu il titolo di una famosa recensione di Pietro Citati, da cui si deduce che in effetti fu la Pavone e lanciare Eco, piuttosto che il contrario.

 

Perché Eco si concentrò su di lei? Perché era una “urlatrice”, ma non solo. In una canzone italiana che deriva essenzialmente dal melodramma e dalla tradizione del Bel canto, più un innesto di ritmi ballabili di origine mitteleuropea o latino-americana, la suggestione dello swing di provenienza americana inizia ad arrivare forte negli arrangiamenti degli anni Trenta. L’autarchia e la svolta anti-inglese del fascismo portano negli anni Quaranta a una stretta in senso tradizionale; l’arrivo degli Alleati coincide ovviamente con una nuova ondata di musica di derivazione yankee; il Festival di Sanremo è inventato dai governi a guida Dc per imporre un ritorno alla tradizione. Ma con il rock e il twist tra fine anni Cinquanta e inizi Sessanta c’è l’irruzione definitiva di quei cantanti che vengono definiti “urlatori”, e contrapposti ai “melodici” di impianto tradizionale. E Rita Pavone sta nel primo gruppo, assieme a Gianni Morandi, Adriano Celentano, Eduardo Vianello, Mina, Bobby Solo, Little Tony, contro la tradizione dei Gino Latilla, Nilla Pizzi, Claudio Villa, fino a Al Bano e Nicola Di Bari.

 

La realtà è molto più sfumata dei festival anni Sessanta come lungo duello tra “il partito di Morandi” e “il partito di Villa”. Già un decennio prima Renato Carosone riesce a mettere felicemente assieme tradizione napoletana, influenza nordamericana e sudamericana, e lo stesso Domenico Modugno in realtà sta un po’ in mezzo. In base alla definizione classica di Progresso-Traduzione, gli “urlatori” sarebbero la “sinistra” e i melodici la “destra”. E in effetti il filone “impegnato” che portai ai cantautori si riallaccia in gran parte all’influenza anglosassone. Non è tutto automatico, però. Un altro filone di protesta attraverso Fabrizio De Andrè si allaccia a sua volta a una tradizione melodica, derivata sia dalla riscoperta del folklore sia dal modello del francese Georges Brassens. E mentre il “melodico” Villa era un militante del Pci e figlio di un antifascista, l’“urlatore” Celentano era invece un democristiano di destra antidivorzista. 


Togliatti muore nel 1964. L’anno in cui esce il “Giornalino di Gianburrasca” e “Apocalittici e integrati”, il celebre saggio di Eco


 

 

In questo fermento, Rita Pavone con “Datemi un martello” esegue una cover di una dura canzone di protesta. Certo, come spiegò Umberto Eco, “il martello di cui si parla originariamente è il martello del giudice: ‘Se avessi il martello del giudice – vorrei batterlo forte – per dire del pericolo che stiamo correndo’. L’autore è Pete Seeger: le sue canzoni gli hanno valso una condanna da parte della Commissione per le Attività antiamericane”. Ma Rita Pavone invece il martello lo voleva per: 1)” darlo in testa a ‘quella smorfiosa’ che si accaparra l’attenzione di tutti i ragazzi della festa”; 2) “picchiare quanti ballano stretti stretti a luci basse”; 3) “rompere il telefono da cui tra breve chiamerà la mamma dicendo che è l’ora di tornare a casa”. Per Eco “un messaggio, già dotato di significato proprio” era “appiattito in una significazione nuova, con funzione consolatoria; come per obbedire a un’inconscia esigenza di tranquillizzazione”.

 

La Pavone dei primi folgoranti successi esplorava inoltre le frontiere di quella che tanti decenni dopo sarebbe diventata la World music: dalla cetra delle Alpi che Anton Karas, dopo la sigla-tormentone del “Terzo uomo”, riutilizzò proprio in “Viva la Pappa col pomodoro”, fino alla melodia della tradizionale “Sur le pont d’Avignon” che è “citata” ne “La zanzara”. Canzone e film alludono alla rivista studentesca milanese antesignana del 1968. Era anche femminista: “Perché, perché / La domenica mi lasci sempre sola / Per andare a vedere la partita / Di pallone / Perché, perché / Una volta non ci porti anche me”. Fautrice di un tipo di coppia aperta che a modo suo già anticipava la rivoluzione sessuale (“Non essere geloso se con gli altri ballo il twist, / Non essere furioso se con gli altri ballo il rock: / Con te, con te, con te che sei la mia passione / Io ballo il ballo del mattone”). Insomma, il martello, pur “depotenziato”, era comunque una contestazione che minacciava già di sfasciare tutto. “Datemi un martello / Che cosa ne vuoi fare? / Lo voglio dare in testa / A chi non mi va, sì, sì, sì”.

 

La Rita Pavone pre-68 fa perfino la partigiana. Per esempio in “La feldmarescialla - Rita fugge… lui corre… egli scappa” di Steno, dove nell’Italia del 1944 deve salvare un aviatore alleato cui danno la caccia i tedeschi. Del 1967 è anche “Little Rita nel Far West”, un curioso western quasi revisionista e quasi dalla parte degli indiani dove Rita Pavone recita assieme a un incredibile Lucio Dalla e a un Terence Hill pre-Bud Spencer e molto pre-Don Matteo. A parte il già citato “Rita la zanzara” del 1966 e il seguito “Non stuzzicate la zanzara” del 1967, va ricordato nel 1965 un “Rita la figlia americana” in cui fa addirittura la parte di un’orfana cilena adottata dall’industriale Totò. “Musicarelli”, è il termine con cui sono in genere liquidati questi film. Non è del tutto esatto. Per quanto spesso scalcagnati, non erano costruiti attorno a canzoni già esistenti, ma al contrario la Pavone vi cantava pezzi scritti a hoc. Insomma, dei veri musical, come in effetti è anche “Gianburrasca”.

 

Ma c’è pure un’altra cosa per cui Rita Pavone si distingue. “Non è facile avere 18 anni” era stato il titolo di un altro suo grande successo. Una chiave per comprendere il disagio che avrebbe portato molti dei suoi fan a fare il Sessantotto ma poi a dimenticarla. Eco la pone alla base della sua analisi: “La Rita Pavone reale poteva avere anche diciott’anni (come poi si è appurato)”, osservava. “Ma il personaggio ‘Pavone’ oscillava tra i tredici e i quindici”. Da cui un interesse “morboso” perché “c’era in questa ragazzina una sorta di appello non riducibile alle categorie consuete”. “La Pavone appariva come la prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina, nel senso in cui lo sono i soliti insopportabili fanciulli prodigio”. 


Il martello, pur “depotenziato”, era una contestazione che minacciava già di sfasciare tutto. Il periodo partigiano prima del ’68 


 

Insomma, “il fascino della Pavone stava nel fatto che in lei quanto sino ad allora era stato argomento riservato per i manuali di pedagogia e gli studi sull’età evolutiva, diventava elemento di spettacolo”. “Questa ragazza che camminava verso il pubblico con l’aria di domandare un gelato, e le uscivano di bocca parole di passione; questa voce ineducata il cui timbro, la cui intensità ben si addiceva a chiamar la mamma dal cortile, e che trasmetteva messaggi di passione sgomenta; quel volto, da cui ormai, passato il primo spaesamento, si attendevano ammiccamenti maliziosi, e dichiarava all’improvviso un mondo fatto di semplicità e calze di lana bianca”. Per Eco “in Rita Pavone per la prima volta, di fronte a una intera comunità nazionale, la pubertà si faceva balletto e acquistava pieni diritti nell’enciclopedia dell’erotismo – a livello di massa, badiamo, e coi crismi dell’organismo televisivo di stato, e dunque agli occhi della nazione consenziente, non nelle pagine di un Nabokov dedicato ad acquirenti colti, e al massimo ad adolescenti curiosi”. Forse Rita Pavone era anche l’icona di un paese in cui il Boom stava per far scoppiare le contraddizioni di una società non cresciuta all’altezza dell’economia.

 

Dopo che, nel 1968, la contraddizione scoppia, anche Rita Pavone smette di botto di essere una reginetta della musica italiana. Non della musica tout court, anzi. Nel 1969 è il suo massimo successo discografico in Germania, è del 1972 quel “Bonjour la France” che scritto per lei da Claudio Baglioni vende 650 mila copie e apre alla “petite italienne” per un mese intero le porte del teatro Olympia di Parigi, e in seguito imperversa in Sud America.

 

Cambi di umore politico a parte, Rita Pavone nel 1968 sposa in Svizzera Teddy Reno, che aveva 19 anni più di lei ed era stato già padre di un figlio. La stampa scandalistica si scatena, e l’immagine della ragazzina in tempesta ormonale ma in fondo a posto si brucia definitivamente. Oltretutto, Alighiero Noschese fa dei novelli sposi una imitazione un po’ pesante, loro querelano la Rai, e Rita sparisce per un bel po’ dal piccolo schermo nazionale.

 

Poi ci torna, avrà nuovi problemi, farà nuove canzoni, andrà soprattutto in teatro, interpretando perfino Shakespeare. Nel 1989 esce il suo ultimo album in studio; nel 2006 annuncia il ritiro. Ma nel 2013 torna in campo, con un doppio album e anche una serie di concerti. Nel 2016 va a “Ballando con le stelle”, e adesso presenta a Sanremo “Niente (Resilienza 74)”. Interpretazione autentica dell’interprete: “Settantaquattro sono i miei anni. E la resilienza è stata la costante della mia vita. Sono una abituata agli alti e bassi a grandi successi e grandi delusioni. Questo prendere schiaffi rimanendo sempre in piedi mi ha reso fiera. Sono come una canna, mi piego ma non mi spezzo”. Sentiremo.

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