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Sfilate ed etica

Armani ha sfilato senza musica. Ma il silenzio non è vuoto, è presenza illimitata

Paola Tavella

Non è la prima volta che il grande maestro sceglie di contaminare la moda con il dolore della realtà. Grazie a questa sottrazione, si è aperto uno spazio di consapevolezza

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Se è vero che, con l’avanzare dell’età, la materia perde forza e vigore mentre lo spirito si eleva e si rafforza, allora Giorgio Armani ha incarnato questa legge, scegliendo di eliminare la musica di accompagnamento alla sfilata che ha chiuso la Fashion Week milanese, per significare l’orrore della guerra. Non è la prima volta che il grande maestro sceglie di contaminare la moda con il dolore della realtà. Cinque anni fa, quando la guerra siriana era al culmine e milioni di profughi cercavano scampo in Europa, creò una collezione maschile in omaggio al coraggio di quel popolo. Il pubblico accorre per guardare, Armani invece lo costringe a pensare. Chi c’era questa volta dice che si sentivano perfino gli abiti frusciare e, quando i fotografi hanno preso a scattare a raffica e ognuno ha pensato all’assedio di Kyiv, tutti hanno sentito tuonare la mitraglia. Grazie alla sottrazione, Armani ha aperto uno spazio di consapevolezza. Proprio là dove era inaspettato, ha invitato il pubblico a connettersi con la paura che sovrasta una città assediata al centro dell’Europa e alla sua gente, evocando un rito antico e potente. Nella tradizione ebraico-cristiana il silenzio stesso è preghiera. All’inizio del Salmo 65 il testo ebraico dice: “Il silenzio è lode a te, o Dio”. Significa che quando le parole e i pensieri si fermano, il divino è lodato in un silenzio di stupore e ammirazione.

Per gli oranti e i meditanti di ogni disciplina e credo religioso o spirituale, il vero tesoro della contemplazione è proprio il silenzio, l’immobile vuoto dentro di sé. Il silenzio conduce al punto zero, una condizione indicata dalla parola sanscrita shūnya, che alla lettera significa precisamente: vuoto. I matematici indiani inventarono lo zero moderno, utilizzabile come tutti gli altri numeri nelle operazioni aritmetiche, e chiamarono questa quantità proprio “shūnya”. In sanscrito, accanto a questo nome, coesiste un gran numero di sinonimi. Eccone un piccolo assaggio: ākāsha (etere) ambara (atmosfera) ananta (immensità spaziale). Questa pluralità di significati paralleli e cangianti mostra che shūnya non è assenza, piuttosto presenza illimitata. I cosmologi dicono che il novntanove per cento del cosmo è vuoto, il novantanove per cento dell’atomo è vuoto, Mozart insegna che la parte più importante nella composizione non sono le note ma lo spazio fra esse, la loro assenza. Analogamente, la pratica che conduce a shūnya è così semplice: trovare i momenti tra i pensieri, ascoltando e annotando le pause, varco per lo spazio interstellare. Coltivare le pause crea silenzio, e più questo silenzio cresce più andiamo in profondità. Possiamo incontrare il nostro silenzio solo ascoltando davvero. Il silenzio non è mancanza di suoni, è anzi massima attenzione, è sentire il nostro respiro, il fruscio di un abito, l’orrore della guerra. È stare con tutto quel che c’è.

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