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Ricordo controcorrente

Acuto, talvolta sciatto, Pierre Cardin finì per firmare ogni cosa gli capitasse a tiro

Lo stilista è morto a 98 anni

Fabiana Giacomotti

Da Firenze alla Francia, gli aneddoti che dipingono il vero Cardin: bravo figlio di contadini veneti, attento al portafoglio ma schiavo dell'impeto del momento. E cioè senza alcuna strategia

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Vorremmo poter scrivere cose meravigliose di Pierre Cardin nato Pietro Costante Cardin, il couturier della “robe bulle” e di quel sogno che si chiamava Space Age, morto poche ore fa a novantotto anni all’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, il sobborgo dei parigini chic dai tempi di Victor Hugo. Vorremmo dire che l’allievo di Elsa Schiaparelli e di Christian Dior fu il primo a immaginare la moda unisex, a vestire i Beatles in tour, ad aprire un negozio in Giappone e non aggiungere altro.

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Vorremmo poter scrivere cose meravigliose di Pierre Cardin nato Pietro Costante Cardin, il couturier della “robe bulle” e di quel sogno che si chiamava Space Age, morto poche ore fa a novantotto anni all’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, il sobborgo dei parigini chic dai tempi di Victor Hugo. Vorremmo dire che l’allievo di Elsa Schiaparelli e di Christian Dior fu il primo a immaginare la moda unisex, a vestire i Beatles in tour, ad aprire un negozio in Giappone e non aggiungere altro.

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Come hanno fatto in molti. Invece ci continua a venire in mente l’epiteto con cui veniva etichettato dopo gli anni Ottanta qualunque stilista esagerasse con le licenze (“vuoi finire come Pierre Cardin a firmare le piastrelle del bagno?”), e ci sovviene una sfilata a cui assistemmo a Firenze nel 2003 grazie a Pitti che, per ragioni sue, aveva deciso di celebrare il cinquantenario di attività del trevigiano che aveva conquistato Parigi e il mondo intero firmando qualunque cosa gli capitasse a tiro. Nel salone di Palazzo Corsini era stata issata una gran passerella, alta come si usava nel Dopoguerra per cui noi, sedute in prima fila, potemmo osservare non solo quegli abiti che sembravano (e in effetti erano) pensati nel loro effetto spaziale, cioè senza tener conto dell’anatomia di chi li indossava e in particolare di quella femminile, ma soprattutto le scarpe, che sfilavano ad altezza del nostro sguardo.

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Erano tutte modelle degli anni Ottanta, nere col tacco a rocchetto, e quasi tutte avevano i tacchi sbrecciati: lo ricordiamo ancora oggi, quasi diciotto anni dopo, perché alla cena che seguì ci informammo sulle ragioni di quella inaudita sciatteria. Ci venne detto che il maestro aveva voluto usare le scarpe vintage conservate in atelier. Che nulla c’entrassero con gli anni Sessanta della Space Age che aveva contribuito a lanciare, e tanto meno con i vestiti, tant pis. Ma in un modo o nell’altro avevamo stabilito un contatto con il bel signore dai capelli bianchi e lo sguardo verdazzurro Veronese, all’epoca ottantaduenne: parlammo di letteratura, del suo meraviglioso Palais Bulles a Théoule-sur-Mer, già dichiarato monumento nazionale, e di passioni comuni, per cui pochi mesi dopo fummo invitate, uniche italiane, alla festa che il maestro volle tenere per siglare degnamente la concessione, da parte dello stato francese, del celebre e oscuro castello di Lacoste, nel Vaucluse, teatro delle prime gesta di Donatien-Alphonse-François de Sade, in cambio del restauro e della promessa di tenervi un festival teatrale attraverso la sua fondazione.

   

   

All’epoca, il couturier possedeva già Maxim’s, dove non si respirava certo aria di sontuosità e di ricchi investimenti, ma essendo studiose di quell’interprete molto significativo e molto mal compreso dell’Illuminismo decidemmo di accettare, invitando ad accompagnarci l’amica francesista Daria Galateria. Lungo la strada si unì Frédéric d’Agay, erede di Antoine de Saint-Exupéry, e un gruppo di nobili di quella Provenza che sembra ancora vivere come ai tempi della Recherche. Uno di loro, di cui non ricordiamo il nome, portava addirittura un piccolo bouquet di violette al posto della cravatta come Robert de Montesquiou. Fragranti di lini bianchi (si era in luglio) e con un’arietta un po’ fané, arrivammo dunque nelle carrière del castello, la cui facciata annerita dal fuoco della Rivoluzione si erge spettrale in mezzo alla valle dal 1790, e vi trovammo una scena da circo (o da bordello, giudicate voi): fra le rovine erano state costruite delle gabbie, in cui si agitavano ragazzotte bene in carne in guêpière rosso fuoco. Ovunque schiocco di fruste e urla, mentre qualcuno declamava a voce altissima brani scelti dalla “Philosophie dans le boudoir”.

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Emanuele Filiberto di Savoia si aggirava qui e là molto su di giri. Ce ne andammo tutti un po’ costernati e un po’ divertiti, ormai convinti che Cardin procedesse un po’ sull’onda della volontà del momento, cioè senza alcuna strategia, come il bravo figlio di contadini veneti che era: acuto, brillante e con l’occhio ben fisso sul portafoglio. E’ stato un bene che avesse iniziato a proporre i suoi capi solo a poche clienti affezionate già alla fine degli anni Novanta: all’impatto del marketing di Lvmh o Kering non avrebbe retto mai.

 

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