In passerella domenica scorsa a Parigi la collezione haute couture di Donatella Versace, liquidata come il “prêt-à-porter di lusso” dalla stampa francese (foto LaPresse)

Com'è snob Parigi

Fabiana Giacomotti
La lobby della moda francese guarda dall’alto in basso gli italiani che sfilano e che comandano. Acida quasi quanto Bettina Ballard. Maria Grazia Chiuri è passata alla direzione creativa di Dior: un’italiana a capo di una maison simbolo della couture francese.

L’attesissimo passaggio di Maria Grazia Chiuri dalla direzione creativa di Valentino a quella di Dior, cioè un’italiana, e una donna, a capo della maison simbolo della couture francese insieme con Chanel, è la risposta più efficace alle critiche acidissime che in questi giorni hanno accompagnato sulla stampa francese le presentazioni di moda haute couture a Parigi da parte di un numero, di certo sempre crescente ma anche piuttosto generoso e abile, di stilisti italiani. La collezione ultra contemporanea e bellissima di Donatella Versace, peraltro una decana dell’alta moda sotto la tour Eiffel, è stata liquidata come il “pret-à-porter di lusso” che non è affatto e che anzi ha dato un nuovo tono in quell’eccesso di decorativismo con cui spesso si confonde l’alta moda; Miuccia Prada, ed è un segnale allarmante se si considera l’idolatria di cui è stata fatta oggetto per due decenni, è stata accolta dal Figaro con l’eco di uno sbuffo annoiato: “La quarta italiana in una sola giornata”, e badate bene all’avverbio perché la valutazione sta tutta lì. Si ha l’impressione che nemmeno Diego Della Valle, che pure sta investendo milioni di euro nel difficilissimo rilancio di Schiaparelli, abbia un’informazione totale e precisa di quanto accade nei corridoi dell’atelier di place Vendome accanto al Ritz, di gran lunga il miglior asset di questo acquisto fatto nei ricchi anni Duemila.

 


Maria Grazia Chiuri (foto LaPresse)


 

Di sicuro, nel quartier generale di Della Valle a Milano i rapporti con “quelli di Schiaparelli”, marchio che i francesi ritengono ormai del tutto autoctono nonostante avessero ostracizzato a lungo la sua fondatrice (“quell’artista italiana che fa vestiti” come la indicava Coco Chanel, adoperandosi sempre per metterla in difficoltà), le sinergie stanno a zero, al contrario di quanto accade con l’altra maison francese di proprietà, Roger Vivier. Prova ne è che la collezione del nuovo direttore creativo di Schiaparelli, Bertrand Guyon, pur senza essere un’eccezionale riuscita e pur scontando un primo, inevitabile momento di sudditanza al colossale patrimonio di archivio, ha ottenuto recensioni di gran lunga inferiori rispetto a quelle che avrebbe meritato.

 

A dispetto dello spirito di inclusione di cui l’occidente tenta disperatamente di dare prova in questi giorni, e che nella moda e nella cultura dovrebbe trovare dei viatici naturali, non ci sono dubbi che alla lobby della moda francese tutti questi italiani che vanno a occupare posti importanti (alla fine degli anni Ottanta, Bernard Arnault chiamò a dirigere Dior Gianfranco Ferré) e che calano nella capitale a frotte persino per presentare i quattro vestituzzi di una collezione crociera non piacciano granché. Anzi, non piacciono affatto, a prescindere da quante stanze di alberghi a cinque stelle occupino, da quanti hotel particulier affrescati e dorati affittino per presentare le loro collezioni, da quante “petites mains” impieghino per cucirli e ricamarli e da quante pagine comprino dei loro giornali per sostenerle. Parigi continua a essere desolatamente vuota, anche nei giorni degli Europei di calcio trovare la propria stanza preferita nel piccolo hotel dove si è soggiornato anni fa è stato sorprendentemente facile e ancora più facile è stato farlo a prezzi stracciati, ma l’esprit de grandeur non accenna a diminuire.

 

E’ disarmante leggere il dispetto, le “mépris” malamente ammantato di cortesia, lo snobismo che affiora da questi testi, e constatare quanto non sia troppo distante, né nella forma né nei contenuti, da quanto scriveva quasi sessant’anni fa sugli italiani “così fieri di vedere fotografati i loro vestiti da non rendersi conto che i giornalisti sono più numerosi dei compratori” la leggendaria, snobissima fashion editor di Vogue nella Parigi d’anteguerra e poi a New York, Bettina Ballard. Le sue memorie, da decenni fuori catalogo in tutto il mondo, sono state pubblicate per la prima volta in Francia pochi giorni fa, proprio in occasione delle sfilate della haute couture, e leggendole riesce difficile capire se sia più provinciale lei, con la sua smania tutta americana e molto parvenu di frequentare solo i ricchi e i potenti facendosi riconoscere come “un membro della famiglia di Vogue”, o noi con i nostri patetici tentativi di ingraziarcela a suon di baciamano e di “cene a prosciuto e figi”.

 

La raccolta di note “In my fashion”, oltre a rivelare particolari dimenticati e forse inediti sulla cattiveria di Coco Chanel, sull’anima “profondamente commerciale” di Christian Dior , sulla bellezza perfetta di Cristobal Balenciaga, è infatti il controcanto urticante allo storytelling che noi italiani ci facciamo da decenni sulla nascita mitica della nostra moda, la ribattuta all’orgoglio che sfoggiamo mostrando le immagini della Sala Bianca di Palazzo Pitti allestita per le sfilate da Giovanni Battista Giorgini, il geniale imprenditore fiorentino che nelle nostre descrizioni facciamo anzi sempre precedere dal titolo di “marchese”, come se non avessimo festeggiato i sessant’anni della repubblica un mese fa. Bettina lo liquida con una segnalazione sbadata: “Un certo commissario chiamato Giorgini che ci riempiva di baciamano fra i sorrisi”. Dei baciamano che “il commissario” elargiva regolarmente e con dovizia sappiamo molto: nelle Teche Rai sono conservati metri di pellicola che testimoniano le prime sfilate a Palazzo Pitti e i tanti inchini di quest’uomo elegante al gruppetto delle arbitre della moda di allora, cioè Bettina Ballard e Carmel Snow, la donna che aveva coniato il termine di New Look per Dior e che, come ricorda tuttora il presidente onorario della Camera della moda Beppe Modenese, arrivava in Sala Bianca la mattina alle dieci per assistere alle sfilate già completamente ubriaca. Quello che fino a oggi ignoravamo è quanto si sentissero superiori loro, nate a dire il vero un po’ ovunque e certamente prive di un’educazione regolare (“ma è straordinario Bettina: dalla linee della tua mano è lampante che saresti potuta diventare una grande scrittrice, se solo ti fossi acculturata un po’”, le disse una sera Clara Boothe Luce scrutandole il palmo) nel ricevere questi omaggi.

 

“Com’era piacevole viaggiare in conto spese con la scusa di esplorare le nuove capitali della moda”, scrive la Ballard a proposito di quei primi soggiorni fiorentini pagati dall’organizzazione di Giorgini che voleva a tutti i costi convincere compratori e giornalisti stranieri a dare un’occhiata ai modelli di Jole Veneziani, delle Sorelle Fontana, di Schuberth e di tutti i nomi che da decenni abbiamo collocato nell’olimpo della moda italiana, prima di tornare negli Stati Uniti. “Come uccelli migratori, dopo Parigi che rimaneva l’obiettivo privilegiato dei nostri viaggi, sbarcavamo in massa a Firenze (…)”, annota, e le scappa un sussulto di risa. “Giorgini favoriva in modo sfrontato gli americani, esasperando i compratori e i giornalisti inglesi che, in realtà, promuovevano la moda italiana ben più di noi (…). La sera, ci ritrovavamo nella piazza fra il Grand Hotel e l’Excelsior, cercando di capire che cosa gli altri pensassero davvero della moda italiana”. Su una cosa non ci sono dubbi: i soggiorni tutto compreso sulle rive dell’Arno le piacciono certamente di più dei vestiti.

 


Bettina Ballard e Coco Chanel


 

Partita come volontaria della Croce Rossa in Nord Africa durante la Seconda guerra mondiale con una cappa di pelliccia, una coperta di cashmere per tenersi caldo nelle “fredde notti nel deserto” e una sciarpa nera di paillettes perché non si sa mai, trova le modelle italiane orrende “con quei loro capelli irsuti, le labbra senza rossetto, che guadagnavano in pochi giorni più soldi di quanti ne avrebbero visti in vita loro e che posavano con indifferenza mentre il fidanzato le aspettava per andare a mangiare degli enormi piatti di spaghetti”. Povere e nemmeno belle. Delle selvagge. Gli italiani che la accolgono forse si sono accorti del suo cordiale disprezzo, ma fingono indifferenza come le modelle (“era viziatissima, e per piacerle bisognava essere già famosi. I giovani senza appoggi non erano il suo genere”, ricorda adesso Renato Balestra).

 

A Roma, il servilismo nei confronti di Bettina e di Sally Kirkland, responsabile moda di Life, tocca il vaudeville. La moda italiana è appena nata, e già una sola città di riferimento non le basta più. Bisogna moltiplicarle e accapigliarcisi sopra, come per le correnti del Pd: “Poco dopo la nascita della moda a Firenze, un gruppo di sarti secessionisti e di altri che non erano nemmeno mai stati invitati decisero di organizzare una settimana della moda a Roma. Ci precipitammo, fin troppo contente di aggiungere la Città Eterna alla nostra lista di destinazioni alla moda (…) fummo decorate con la Stella della Solidarietà come ringraziamento del sostegno che avevamo dato alla moda italiana. La cerimonia si svolse a Castel Sant’Angelo, ma disgraziatamente né io né Carmel Snow, impegnate altrove, potemmo assistervi. Quale sorpresa quando, arrivate a Roma due giorni più tardi, le autorità organizzarono una nuova cerimonia solo per me”. Vista da Oltreoceano, anche la nascita della “moda sul Tevere” su cui si organizzano ancora convegni e si scrivono saggi è decisamente meno eroica di come ce la raccontiamo. Non è del tutto colpa nostra.

 

Da una parte, non avendo avuto una nostra Versailles ed essendo Beatrice d’Este morta troppo giovane e in epoca troppo lontana per aver lasciato un segno, abbiamo dovuto crearci un’epica appena ci è stato possibile, ed è stato poco tempo fa. Dall’altra, abbiamo dovuto metterla in scena quasi sempre altrove. Da decenni, in molti settori addirittura da centinaia di anni, dell’approvazione dei mercati stranieri abbiamo avuto certamente più bisogno che di quello nazionale, dove ci contentiamo di esporre e di mettere in mostra i nostri prodotti, sfruttando “i panorami” e “le bellezze artistiche” di cui parla Bettina nella loro luce migliore. E’ questa, oltre certamente a una piccola dose di provincialismo che non sappiamo levarci di dosso, la ragione che porta decine di stilisti italiani a Parigi nei giorni delle sfilate perfino quando hanno da festeggiare le vetrine della boutique lavate di fresco, e che ha convinto la maison del quarantenne Francesco Scognamiglio, da poco partecipata dal fondo Y Capital Investment dell’imprenditore malese Dato Sri Johann Young, a fare domanda per entrare nella Chambre Syndicale de la Couture.

 

Accettato nel giro di tre mesi, per via di uno spettacolare battage a favore da parte della stampa internazionale, ma certamente anche grazie al potere del nuovo socio, ha sfilato domenica scorsa nel palazzo appartenuto a uno dei teorici del Codice Napoleonico, Jean Jacques de Cambacérès, con tutti i crismi e tutti gli stucchi di prammatica. Un nuovo aderente giovane e provvisto di denaro inizia a far piacere anche alla federazione della moda più esclusiva del mondo. D’altronde, le clienti russe o medio orientali che comprano Giambattista Valli o Valentino, a Parigi hanno comunque casa o vi arrivano comunque volentieri.
Per qualche anno, gli italiani hanno tentato di fare a meno di Parigi, di sostenere il made in Italy dove, non solo in teoria, dovrebbe essere prodotto. Ci sono riusciti solo gli stilisti e i marchi che, attraverso la propria storia o grazie a una serie di operazioni di marketing e di comunicazione mirate, sono riusciti a inglobare valori popolari, condivisi e facili da riconoscere: per esempio, il restauro del Colosseo finanziato da Tod’s con 25 milioni di euro, oppure la ripulitura della Barcaccia di piazza di Spagna grazie a Bulgari, o ancora il recupero della Fontana di Trevi con Fendi (i turisti non resistono a tutto quel meraviglioso bianco ottico: per dissuaderli dalla scalata bisognerebbe evitare di affidarla alla cura di vigili sempre distratti e mettere al loro posto qualcuno di quei rigidissimi venditori delle boutique, abili a scoraggiare e intimorire).

 

Si stenterebbe a crederlo, ma al momento l’art bonus del ministro Franceschini è forse l’unico, valido oppositore alla supremazia di Parigi nel business della moda. Per chi, però, non vanta altro che una fabbrica nella pianura padana e nessun atelier pluricentenario da far filmare e mettere a disposizione dei curiosi sui propri siti, Parigi è l’approdo non indispensabile ma infinitamente utile, anche a costo di trasportarvi parte della stessa fabbrica. Lo ha fatto sempre nei giorni scorsi Buccellati, firma milanesissima della gioielleria, che nel negozio su rue de la Paix ha messo al lavoro per pura immagine e sempiterno storytelling due orafi arrivati dal Quadrilatero con il loro deschetto. Anche a oggetti e abiti prodotti in una sola copia non basta più essere semplicemente se stessi per trovare un acquirente. Ci vuole la favola. E la città giusta.