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Così Trump prova a rendere pop l'incontro con Kim

Mattia Ferraresi

Dennis Rodman mediatore nella trattativa fra il presidente americano e il leader nordcoreano? Assurdo, quindi probabile

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Di rado il circo di Donald Trump rimane a corto di numeri. Ora che il presidente prepara il colpo supremo, l’incontro con Kim Jong-un in campo neutro a Singapore, non può mancare il corollario di dicerie, leggende urbane e stranezze che rendono l’evento un cibo adatto anche ai consumatori di reality: son buoni tutti a coinvolgere nella narrazione geostrategica gli abbonati di Foreign Affairs, ma quelli di People? E allora il coach Trump toglie John Bolton e fa entrare Dennis Rodman. Il falco con i baffi a capo del consiglio per la Sicurezza nazionale è stato messo in disparte nel dibattito sulla Corea del nord, che lui vorrebbe immediatamente denuclearizzata o annientata, tertium non datur, e forse non sarà nemmeno parte della spedizione del 12 giugno, eventuale esclusione che non si vede come potrebbe essere compatibile con il mantenimento del suo ruolo. Nel frattempo il New York Post, tabloid a bassa affidabilità ma divenuto improvvisamente significativo nell’èra trumpiana, scrive che Dennis Rodman, detto il Verme, l’ex leggenda del basket che un tempo si lamentava perché la canottiere dell’Nba non valorizzavano abbastanza i suoi tatuaggi e negli ultimi anni s’è reinventato guru del dittatore fissato con i passatempi occidentali, andrà all’incontro di Singapore. Una fonte ha detto al Post: “Non importa cosa uno può pensare della sua presenza. L’unica cosa certa è che l’audience sarà huge”.

  

Se non fosse improbabile, visto il numero di impegni, verrebbe da pensare che l’autore del virgolettato altri non è che The Donald, che è ossessionato dagli ascolti e dall’aggettivo huge, uno dei suoi marchi di fabbrica. Del resto, non è troppo lontano il tempo in cui al telefono con i giornalisti si spacciava per il suo portavoce, l’inesistente John Barron, per potersi bullare con più agio di tutti i suoi successi. Rodman è ormai un habitué della corte del leader supremo, e fra una partita di compleanno e l’altra ha trovato il modo, l’anno scorso, di regalare a Kim una copia del libro più importante dopo la Bibbia (copyright Trump), The Art of the Deal, per dare modo all’amico di entrare nella testa del presidente. Ora il Verme, essendo notoriamente modesto, non vuole attribuirsi chissà quale merito, ma non si tira indietro quando gli chiedono se ha avuto un ruolo, indiretto e informale, nella mediazione fra due leader lontanissimi ma ugualmente enigmatici. Si concepisce così, come un ambasciatore di buona volontà che offre consigli, intrattenimento, buonumore e capacità di creare empatia, ché i rapporti diplomatici di quest’epoca non si costruiscono certo sull’expertise. Se nell’orbita dei mediatori nordcoreani collochiamo Antonio Razzi e il mitico wrestler Antonio Inoki, omologo giapponese di Rodman, ecco che il sistema di inviati diplomatici e consiglieri di guerra diventa d’improvviso superfluo. Sono le verità ineffabili di un momento storico in cui una richiesta della postulante Kim Kardashian viene esaudita in qualche ora e il procuratore generale non viene nemmeno ricevuto nello Studio Ovale. Avere Rodman dalle parti del Capella Hotel di Singapore potrebbe lubrificare un incontro che, affrontato secondo il protocollo, rischia di essere una vuota formalità: il vero, definitivo dramma delle voci sui benefici di Rodman nella trattativa nordcoreana è che si avvicinano pericolosamente alla verità.

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