IL FOGLIO DEL WEEKEND

L'utopia del Covid zero

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

È fallita l’idea di far sparire il virus dalla faccia della terra. L’unica strategia che resta è quella della convivenza. Bisogna riscoprire la simpatia reciproca, anche con i complottisti e i No vax, o si rischia la frattura definitiva

Covid zero o Zero Covid: requiescant in pace. Dopo Singapore anche l’Australia ha seppellito l’idea di debellare completamente Covid-19, con la quale avevano sin qui affrontato la pandemia. I paesi asiatici e oceanici sono ossessionati dalle epidemie, in particolare le isole, perché le epidemie prodotte dai patogeni portati da esploratori e viaggiatori causavano paurose perdite tra gli abitanti e il bestiame prima di estinguersi naturalmente. Il rapido diffondersi della variante Delta ha fatto capire che Darwin è il convitato di pietra di questa pandemia, e che si dovrà procedere per equilibri provvisori e locali, usando i mezzi non farmacologici e vaccini, per prevenire infezione e malattia, cercando di mettere a punto incentivi (non sempre intelligenti) per motivare verso comportamenti razionali nella speranza che prima o poi esca fuori una cura.

  

Covid zero piaceva ai governi, e al nutrito club degli scienziati paternalisti, anche perché riaffermava l’importanza della dimensione “nazionale” e della medicina sociale: il perimetro all’interno del quale il virus doveva essere eradicato era quello dello Stato stesso, il merito della vittoria sul virus sarebbe andato tutto alla classe politica e ai suoi consiglieri. Quando, il 17 agosto, l’elogiatissima premier neozelandese Jacinda Ardern ha annunciato un lockdown nazionale dopo la scoperta di un solo caso di Covid, forse più d’uno ha visto vacillare le proprie certezze. Va di moda la parola “sostenibilità”, ma come può essere “sostenibile” una scelta di salute pubblica che impone misure così stringenti alla luce di un singolo caso di infezione? Come si bilancia il beneficio del non avere casi, con i costi (economici, psicologici, nel medio termine anche sanitari) di una società chiusa in casa? Costi che, peraltro, alla fine della fiera sono a carico soprattutto dei meno fortunati.

  

I paesi che hanno inseguito il miraggio Covid zero sono in ritardo con la campagna vaccinale, mentre quelli più pragmatici vedono coesistere un’ampia copertura vaccinale e una (per ora) variante del virus che si diffonde molto più rapidamente. Ricordiamo (anche se spesso lo si omette) che una buona parte della popolazione suscettibile, coloro cioè che sono predisposti a contrarre il virus, lo ha già contratto. La popolazione delle “vittime” potenziali è pertanto sensibilmente ridotta, fra immunizzati naturalmente e immunizzati via vaccinazione. Singapore ha deciso di smettere di parametrare le proprie politiche sull’andamento dei contagi, per monitorare gli esiti sanitari (ricoverati in terapia intensiva e, dunque, tenuta del sistema ospedaliero) e sulla base di quelli orientare le proprie azioni.

 

Comincia a essere chiaro che imparare a convivere con Covid-19 significa anche imparare di nuovo a convivere gli uni con gli altri. Sono molti i fattori che hanno consentito, negli ultimi duecentocinquant’anni, l’affermarsi di società più aperte, a cominciare dalla crescita economica. Si tende a dimenticare che migliori condizioni di vita sono andate di pari passo con l’alleggerimento del patrimonio di patogeni che influenza la vita quotidiana degli individui e delle società in diverse parti del pianeta. La riduzione del carico parassitario ha favorito l’evoluzione di società più liberali, ovvero fondate sulle libertà individuali, per un motivo di importanza cruciale. Società a divisione del lavoro avanzata, nelle quali cioè è possibile estendere il circuito degli scambi e sviluppare realtà complesse che rispondano a tutta una serie di domande sociali (a cominciare dall’impresa moderna), hanno bisogno che la collaborazione fra estranei sia agevole. Quando si ragiona sulla possibilità di collaborare fra persone e imprese di diversi paesi, tipicamente si riconosce come importante sia l’assenza, o la riduzione, di barriere legali allo scambio (come i dazi doganali) sia la presenza di alcuni fattori culturali. Banalmente: è difficile entrare in rapporti di scambio con chi è percepito come “minaccia”, perché manca quel grado minimo di fiducia, in assenza del quale non ci si può appellare neanche al riguardo del macellaio per il suo autointeresse.

 

Una situazione epidemica minaccia la costruzione della fiducia tra estranei: il prossimo diventa un “untore” prima che una controparte o un collega. I neuroeconomisti, forse non a caso, trovano che i livelli di ossitocina, un marker della fiducia, e il pil sono più alti nei paesi dove circolano meno parassiti. Gli psicologi cognitivi hanno descritto decine di euristiche e bias che servivano a evitare le infezioni prima della medicina moderna: disgusto e sospetto che, per l’appunto, servivano a “tenere le distanze”. 

 

Ancor prima che le infezioni più gravi o acute diventassero, con la transizione agricola e la crescita demografica, una minaccia costante, la selezione naturale aveva dotato gli individui di sentimenti morali per cementare le relazioni sociali. Adam Smith aveva capito che le società umane sono tenute assieme da un sentimento simpatetico: ciascuno di noi, avendo esperienza di gioia e dolore, successo e fallimento, della morte di persone care e dell’ebbrezza dell’innamoramento, può giudicare le circostanze in cui si trova un altro individuo, e avere per lui, per l’appunto, simpatia. Non vi sarà mai un’intensità pari fra il dolore di chi è vittima di un incidente stradale, per esempio, e la spontanea simpatia di chi si fermi a soccorrerlo, o anche solo si avvicini per sincerarsi del suo stato di salute. Ma se questi sentimenti non sono “unisoni”, spiega Smith nella Teoria dei sentimenti morali, almeno sono “concordi”, e tanto basta perché vi sia un certo grado di armonia nella società. Siamo reduci da alcuni decenni di studi sull’empatia, che non è solo immaginazione morale (come la simpatia smithiana) ma pretende che noi riusciamo a sentire quel che sentono gli altri o a entrar nella loro testa: si tratta di idee inverosimili, pur difese da autorevoli neuroscienziati.

 

La simpatia, nel grande affresco smithiano, è tanto più forte quanto più prossimo ci è l’altro, e scema invece man mano che ci allontaniamo. E’ l’esempio, arcinoto, del terremoto in Cina. Un europeo “dotato di umanità” dapprima ne resterebbe molto colpito e darebbe sfogo a tutta la sua solidarietà ma “quando tutti questi sentimenti d’umanità fossero stati una buona volta espressi, tornerebbe ai suoi affari come se nessuna simile catastrofe fosse accaduta”. Partecipiamo di più e più profondamente ai mali che colgono le persone che conosciamo e con le quali ci è più facile immedesimarci, che a tragedie magari più gravi che però colpiscono interi popoli di cui sappiamo giusto che esistono. Le neuroscienze cognitive ed evoluzionistiche forniscono prove e spiegazioni del fatto che nonostante l’europeo dotato di umanità si commuova per le sorti degli afghani tornati sotto il regime talebano, ciò non basta per indurlo ad azioni particolari.

 

Che cosa succede se invece l’identificazione simpatetica col nostro vicino di casa no-vax o pro-vax comincia a venir meno? Già la nostra è l’èra della polarizzazione, nella quale siamo tutti assieme più vicini e più lontani: il nostro avversario politico è un twittatore che vive all’altro capo del paese ma col quale abbiamo una frequenza di rapporti, per quanto poco cordiali, come fosse il vicino del piano di sotto. Ma un conto è la discussione politica, nella quale, sotto sotto, tutti sappiamo che l’esito delle elezioni non dipende né da noi né dal tizio col quale tanto ci piace litigare. Un altro è una faccenda che attiene al nostro corpo: il suo stato di salute, messo a rischio dagli “untori”. La sua integrità, minacciata da quello che i no-vax chiamano “il siero sperimentale”.

 

Le nostre società hanno evoluto una serie di protocolli per poter creare fiducia, al loro interno, anche fra estranei. Fra questi, quelli che le aziende farmaceutiche seguono per lo sviluppo dei vaccini e dei farmaci. Essi sono, solo in parte, l’esito della presenza del regolatore pubblico. L’embrione dell’Fda, da cui discendono Aifa ed Ema, prendeva forma a fine Ottocento su richiesta degli imprenditori farmaceutici, che volevano competere sulla base di regole che escludessero dalla competizione gli imbroglioni e consentissero di fare investimenti che sarebbero stati selezionati davvero dal mercato. Se poi le agenzie regolatorie si sono allargate, questo è dipeso da interferenze politiche piuttosto che dalle loro dinamiche di funzionamento.

 

Nei movimenti no-vax, si osserva quel fenomeno che già Eric Hoffer aveva spiegato: la mente sospettosa crede assai di più di quanto dubiti. Una delle caratteristiche dei movimenti di massa è la ricerca costante e continua del nemico, al punto che anche il dissenso interno viene giustapposto al nemico esterno. Se il movimento fallisce, del resto, la colpa dev’essere per forza di qualche sabotatore, di qualche infiltrato, della pervasività dell’influenza dei poteri forti. Questa diffidenza diffusa è accresciuta dall’oggetto del contendere: quella che viene percepita come una battaglia sul corpo.

 

Il rischio con cui abbiamo a che fare è una frattura più profonda di quanto non appaia, e di conseguenza ancora più radicale di quelle che avevamo sperimentato con l’emergere dei populisti. Credere che l’euro sia una trappola in cui i tedeschi ci hanno attirato per venderci le Bmw anziché lasciarci godere le meraviglie delle nostre Fiat stimola, senz’altro, un sentimento nazionalistico e xenofobo. Ma credere che il nostro vicino di casa voglia costringerci a vaccinarci, che le élite di governo ci considerino carne da cannone in un grande esperimento controllato, nutrire ostilità verso gli amici di ieri, quel bravo ristoratore che ci chiede il green pass o il barbiere che ci costringe allo stesso rito, ha conseguenze molto più prossime e quindi più profonde. Lo stesso, sia ben chiaro, all’incontrario: evitare di vedere l’amico non vaccinato per paura che ci trasmetta il virus, invitare a cena solo persone sul cui stato sanitario siamo perfettamente tranquilli, identificare nel filosofo anti-green pass un potenziale eversore. La polarizzazione e l’astio politico della nostra epoca stanno filtrando molto più in profondità di quanto non abbiano mai fatto.

 

L’esercizio a cui dovremmo sottoporci è quello opposto. Convivere col virus significa anche convivere con diversi atteggiamenti rispetto al virus. Sapere che persone diverse avranno una differente stima dei rischi. Chi abbia girato un po’ l’Europa, questa estate, ha visto approcci molto diversi: paesi nei quali è chi si mette la mascherina l’anomalia, altri in cui il controllo della doppia vaccinazione è capillare. In parte, è una questione di quelli che si sarebbero chiamati i “caratteri nazionali”: che poi è la stessa ragione per cui ci aspettiamo che il controllo del green pass sia molto più rigoroso in alcune aree del paese che in altre. C’è, ovviamente, un elemento di crescente e fastidiosa incertezza, che è però ineludibile, dal momento che il green pass rientra per definizione in quelle politiche “segnaletiche”, il cui pieno rispetto attualmente non può mai essere esatto.

 

In parte, gli atteggiamenti diffusi (la “cultura”, la “morale”) riflettono dati peculiari a una certa area, a una certa popolazione, a un certo gruppo anche piccolo di individui. Chi ha perso i nonni per via del Covid tenderà a essere più rigorista di chi lo ha avuto, ma nella forma di un lieve raffreddore. Una società come quella italiana, nella quale l’opinione pubblica è composta di persone relativamente anziane, sarà molto più ansiosa di un paese est europeo nel quale invece predominano i giovani. Dovremmo tenerne conto e imparare a rispettare un po’ di più le valutazioni degli altri. Nonostante una campagna vaccinale di grande successo, oggi va in scena uno scontro fra sensibilità apparentemente inconciliabili. Tutti si improvvisano lettori di paper impenetrabili alla totalità della popolazione se non a un ristretto numero di esperti. Ciascuno sente di essere portatore di una grande verità, da imporre all’oscurantismo altrui: vale per i no-vax come per i pro-vax. Nessuno riconosce la legittimità degli argomenti dell’altro. La simpatia è ridotta a zero.

 
Imparare a convivere col Covid vuol dire accettare che ci saranno contesti nei quali è opportuno mettersi la mascherina anche se ci sembra inutile, esattamente come ci mettiamo la cravatta in ufficio quando preferiremmo non farlo. Vuol dire evitare di guardare storto chi non si igienizza costantemente le mani. Dal punto di vista dei governi, significa convivere col fatto che non possiamo vaccinare tutti se non lo desiderano, e pertanto dobbiamo accettare la possibilità (non la certezza, perché l’essere o meno vaccinato non è l’unico fattore che decida dell’esito dell’infezione) di un aumento delle ospedalizzazioni dei no-vax. Ha senso criminalizzarli, coprendoli quotidianamente di contumelie e persino augurando loro di ammalarsi? Non aiuta certo a cicatrizzare un dibattito così polarizzato. La politica dovrebbe spegnere il fuoco, non soffiarci sopra.

 
E’ ingiusto che il conto delle scelte dei no-vax sia a carico della collettività? In un servizio sanitario nazionale paghiamo per decisioni individualmente magari scellerate di alcuni, in una logica mutualistica. Non pare, per fortuna, che si sia mai pensato di escludere dall’Ssn i fumatori o gli obesi. Dobbiamo cercare, tutti, strategie di adattamento, che consentano quella simpatia reciproca senza la quale i legami sociali possono sfilacciarsi in un tempo sorprendentemente breve.

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