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Cinque anni fa il servizio sbarcava in Italia

Agenda Netflix

Michele Masneri e Andrea Minuz

Un po' Rai 3 un po' Retequattro, tra la Suburra e il Sole di Riccione, l'epopea della tv californiana arrivata a Roma a suon di "disdici quando vuoi"

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Sono tempi strani e incerti, si sta come d’autunno i responsabili, la confusione è alta tra Recovery Fund e Var, e non si capisce cosa voglia Renzi e cosa speri di ottenere Conte. Tra i vescovi che fanno telefonate e i Calenda che rispondono a telefonate, l’unica certezza condivisa da centro, sinistra e destra è l’agenda Netflix. Senatori a vita inclusi. Così, a domanda di Repubblica, “ma lei cosa fa la sera?”, Liliana Segre risponde: “Mi guardo le serie su Netflix”. Così, “SanPa” spunta fuori persino nel cuore della crisi di governo e della macchinazione renziana, al culmine di una lunga giornata di binge-watching in streaming da Palazzo Madama.

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Sono tempi strani e incerti, si sta come d’autunno i responsabili, la confusione è alta tra Recovery Fund e Var, e non si capisce cosa voglia Renzi e cosa speri di ottenere Conte. Tra i vescovi che fanno telefonate e i Calenda che rispondono a telefonate, l’unica certezza condivisa da centro, sinistra e destra è l’agenda Netflix. Senatori a vita inclusi. Così, a domanda di Repubblica, “ma lei cosa fa la sera?”, Liliana Segre risponde: “Mi guardo le serie su Netflix”. Così, “SanPa” spunta fuori persino nel cuore della crisi di governo e della macchinazione renziana, al culmine di una lunga giornata di binge-watching in streaming da Palazzo Madama.

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“Io sto con San Patrignano, io sto con la famiglia”, dice Salvini in un’arringa fatta di hashtag e associazioni molto libere e “a braccio”, tra aborto, droga, cibo sintetico di Wuhan, spacciatori davanti alle scuole, banchi a rotelle, Borsellino, i nostri figli, la difesa della vita e la difesa dell’Ilva. Un riferimento a San Patrignano sarebbe stato però incomprensibile anche solo un mese fa. Ma adesso no. Adesso “SanPa” è un’epica nazionale sofferta e intensamente rimemorata da tutti. Una gigantesca madeleine collettiva, un groviglio di valori, idee, etiche, morali contrapposte. Attorno a “SanPa” si rifanno le squadre. E nell’anno del Covid, dello streaming e dei cinema e dei teatri chiusi, Netflix diventa finalmente nazional-popolare anche da noi. 

Michele Masneri: C’è anche la teoria dell’agenda Netflix lombarda: cioè che la Moratti ripescata a assessore alla Sanità regionale sia venuta a qualcuno proprio vedendo “SanPa”: ah, la Moratti! È ancora viva? Che fa? Chiamiamola!

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Andrea Minuz: “L’ombra di Netflix”, le trame di un “Deep State” lombardo-californiano dietro il ripescaggio di Moratti. Questa non ce l’hanno neanche nel repertorio più sfrenato di “QAnon”.

MM: E pensare che all’inizio Netflix manco ci voleva venire, in Italia. L’annuncio ufficiale del lancio del servizio in Italia venne dato dalla compagnia il 5 giugno 2015, dopo anni di tentennamenti. Reed Hastings, il fondatore, simpatico californiano di stanza a Santa Cruz, era ben conscio dei problemi strutturali italici, con un paese indietro in tutte le classifiche internazionali per la diffusione delle reti a banda larga, caratterizzato dal dominio Rai-Mediaset, culturalmente bloccato su Don Matteo, incapace di decifrare un flashback; dunque mercato sconsigliatissimo per ogni investimento digitale. Secondo la Harvard Business Review la strategia di espansione internazionale di Netflix è unica: “globalizzazione esponenziale”, la chiamano, cioè procede dai paesi più simili a quello americano (in Canada è arrivata nel 201o) ai più diversi. I paesi di penetrazione sono suddivisi in tre fasce. Noi siamo terza fascia.

AM: Il panorama più ostile, sotto ogni profilo: economico, infrastrutturale, culturale, demografico, legislativo, giudiziario. Tantissimi anziani abituati a un modello di tv lineare, numeri da capogiro per lo streaming illegale, cioè giovani e meno giovani propensi al più complicato hackeraggio pur di non mettere mano al portafogli per contenuti “on-demand”, cosa culturalmente inconcepibile in Italia (e qui siamo però all’arabesco di Flaiano: frodare Sky e Netflix, ma col canone Rai in bolletta). Per Hastings era insomma complicato lanciare un servizio così innovativo e all’avanguardia da noi. Avercela fatta qui, significa potercela fare ovunque.

MM: Un giorno poi si capirà l’importanza  fondamentale di quel “disdici quando vuoi”: motto netflixiano diventato idea dirompente in un paese in cui il cliente ha per definizione torto e il consumatore per cambiare gestore di qualunque servizio deve mandare almeno un fax.

AM: Io sono due mesi che provo a disdire l’abbonamento al “Corriere”, avrò parlato con tutti gli impiegati del “customer care”, alcuni ormai li conosco bene.

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MM: Mi ricordo quando ho disdetto Sky: più complicato di un annullamento alla Sacra Rota, alla fine a colpi di raccomandate e raccomandazioni (grazie a una cara amica), mi hanno dato finalmente il permesso e sono infine potuto andare - perché bisogna andare fisicamente in un posto, portandosi in mano il decoder, la via della disdetta in Italia passa per l’espiazione - e mi sono ritrovato in questo centro Sky dalle parti di porta Pia col decoder in mano in fila con tanti altri come me, cittadini che si erano infine ribellati, il popolo dei decoder, e tra noi serpeggiava un’euforia tipo staffette partigiane, finalmente la libertà! 

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AM: Capisci che nel paese dello Spid il “disdici-quando-vuoi” diventa un grande slogan libertario, una promessa di riscatto, come una vendetta postuma per tutte quelle umiliazioni subite stando al telefono con un “numero verde”. 

MM: E’ il vero manifesto liberale nel paese che ti intima “rispondiamo dall’Italia”: messaggio che nelle intenzioni della spettabile società dovrebbe essere rassicurante e invece certifica che non risolveranno niente (ma forse oggi con Biden e con la fine del trumpismo lo aboliranno).

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AM: Per esempio, mi ricordo la gigantografia di Alessandro Borghi/Stefano Cucchi che ricopriva tutto un palazzone vicino la Stazione Termini. Il claim era talmente grande che il titolo del film sembrava, “Disdici quando vuoi”. Quello comunque è il momento esatto in cui Netflix inizia a penetrare negli umori del Paese, con questo formidabile aggancio tra indignazione collettiva (il caso Cucchi) e liberazione digitale. Bisognava scendere a patti con la pirateria. Il passaggio da “Suburra” a “Sulla mia pelle” è tutto qui.

MM: Già. All’inizio erano sorti tutti quegli account pezzotti, ti ricordi? Poi la rivolta è stata sedata. 

AM: Ci voleva una trattativa Centri Sociali – Netflix e così fu. Salì l’onda della partecipazione, vedere il film su Cucchi era un “rito civile”. Solo che il film, dopo il passaggio a Venezia, uscì contemporaneamente in sala e su Netflix. Panico e rabbia tra gli esercenti. Giubilo tra gli antagonisti. E vai con le proiezioni pirata, sui pratoni della Sapienza, a Milano, piazza Oberdan, un po’ ovunque in Italia, tutto con la benedizione di Netflix e di Repubblica: “Circoli di partito e laboratori politici, collettivi studenteschi, associazioni culturali, una visione collettiva pensata come gesto di militanza civile”, si scriveva allora. Prima era pirateria, adesso “militanza civile”. Netflix riuscì a fare con il film su Cucchi quel che non gli era riuscito con “Suburra”. Accreditarsi nell’impegno civile, gettare un ponte tra Silicon Valley e il modello “Cinema-America”. Vedere “Sulla mia pelle” in proiezione pirata a forma di happening era come “scendere in piazza”, però sventolando le bandiere di Netflix (pensa che bel remake la scena di “Novecento” di Bertolucci fatta così). “Suburra” era ancora un prodotto all’americana, derivativo. “Sulla mia pelle” era già film “necessario”, battaglia civile. Si riannodava anche alla nostra grande tradizione del “non mi interessano gli incassi e in effetti fu così. Fu una gigantesca operazione promozionale. I centri sociali sono stati i migliori influencer di Netflix in Italia. 

MM: Big Data, software, brand strategy, analisi degli hashtag e dei tweet, ma alla fine questo algoritmo italiano di Netflix è assai semplice e sempre il solito. Impegno civile e estate italiana.

AM: Ieri Pasolini e Dino Risi, oggi “SanPa”, “L’isola delle rose” e “Sotto il sole di Riccione”, che poi sono una di fronte all’altra. 

MM: Certo mettere le mani sull’algoritmo di Netflix: quante cose scopriremmo. Altro che la delega ai Servizi. 

AM: Prima l’esordio tradizionale, dunque romanocentrico e malavitoso, con “Suburra”, e poi con “Baby”:  la variante clan Spada di “Gomorra” e la versione torbido-pariolina dell’”Amica Geniale”. E qui siamo nella tradizionale strategia di Netflix che si posiziona sempre a fianco del prodotto locale, dunque si mette dunque a rifare la nostra fiction e infila anche “Don Matteo” nella library. Poi entrano in gioco le varietà regionali, gli esperimenti, con questo focus altamente simbolico-esoterico sulla Romagna. San Patrignano, Riccione, l’Isola delle rose a largo di Rimini e Bellaria, la mini-serie, “Summertime”, con Ludovico Terzigni, nipote di Diego Bianchi, che è romanissimo come lo zio, ma nella serie lo mandano a Cesenatico. Quattro produzioni Netflix, tutte nell’arco di pochi chilometri. Magari l’algoritmo funziona come i sismografi, ti indica l’epicentro delle storie su cui bisogna puntare.

MM: Inesauribile lavoro dell’Emlia-Romagna Film Commission, o l’algoritmo sa qualcosa che non sappiamo? Però c’è anche “Curon”, serie fantasy ambientata nella provincia autonoma di Bolzano.

AM: Con Lilli Gruber?

MM: Purtroppo no. Sta tra Stephen King e i misteri di Alleghe, target “teen emo” , atmosfere montanare e misteriose leggende che si intrecciano nella “suggestiva e iconica cornice” del lago di Resia, quello col campanile che emerge dalle acque. Causerà ulteriori ondate di turismo sui laghi delle Dolomiti, che come sai sono o meglio erano, quando si poteva, presi d’assalto dalle masse dei turisti. Si è scoperto che sono altamente instagrammabili, e dunque, per chi non può andare alle Maldive, sono diventati la meta prediletta dei selfisti da diporto.

AM: Ma il cuore dell'algoritmo nazionale, il prodotto che ha fatto vibrare corde profonde, come un re-enactment dell’inconscio italiano, è evidentemente “SanPa”. Nell’invasione di Netflix in Italia c’è un prima e dopo “SanPa”. I documentari di Netflix a dire il vero sono un po’ tutti uguali, tipo Ikea, format globale, assemblaggio locale. Se levi Muccioli e metti Osho non ti accorgi della differenza (poi, se metti Grillo al posto di Red Ronnie, Casaleggio al posto di Muccioli, internet come aggregatore, al posto dell’eroina, hai già il sequel). Però “SanPa” ha bloccato per due settimane un paese intero, o almeno tutte le bolle del paese. Era dai tempi de “La grande bellezza “che non si parlava così a lungo di un film italiano. Film che se fosse andato a Venezia come documentario poi con un’uscita in sala puntualmente bucata dal pubblico, non si sarebbe filato nessuno. Altro che “Netflix uccide il cinema”.

MM: “SanPa” è Netflix che diventa la prosecuzione di RaiTre con altri mezzi, occupa uno spazio conosciuto, fidato, consueto, la denuncia e l’impegno, la realtà documentaria e la memoria collettiva, Angelo Guglielmi e Reed Hastings.

AM: Questa è d’altro canto la vera forza di Netflix. L’algoritmo non accumula informazioni, riparte in ogni paese da zero per modularsi su usi e costumi locali, come una televisione sartoriale. Ma un po’ ovunque la risposta alla domanda, “cosa vogliamo vedere”, sembra essere sempre la stessa: “Tutto quello che abbiamo visto quando eravamo bambini” (come scrive Kathryn Pallister in “Netflix Nostalgia”).  Anche “SanPa” funziona così, come un tuffo nella memoria degli anni Ottanta. Ha riacceso i ricordi di tutti. Pure Stefano De Martino ha detto, “da piccolo vedevo eroina e siringhe ovunque, mi ha aiutato mia madre”. Tutti si sono messi a raccontare/rievocare il loro rapporto diretto o indiretto con le pere.

MM: Un coming-out collettivo.

AM: “SanPa” è il nostro “Stranger Things”. Lì tutta una rievocazione degli anni Ottanta spielberghiani, “E.T.”, i ragazzini, le bici, un buco nero, i salti temporali. Qui un fluire libero di molti ricordi televisivi, anche strazianti, certo. Io però ho avuto soprattutto un sussulto davanti ai cardigan a rombi di Muccioli, che ricordavo molto bene, i grandi “Missoni” degli anni Ottanta, come i giacconi di Nino Manfredi negli spot per Roma “città pulita” (1982) o la pubblicità della Lavazza, ma anche i Missoni dei “Robinson”, quante trame, quanti patchwork!

MM: Riflettere sulla centralità dei fratelli Missoni. Anche su Canale 5, sono protagonisti di “Made in Italy”, con Claudia Pandolfi che fa Rosita.

AM: E la Rai invece? Chiamata in causa su “SanPa” in continuazione, ma solo per dire “perché non l’ha prodotto la Rai?” Chi dice così non si rende conto che per la Rai è più “innovativo” e remunerativo vendere a Netflix armadi di repertorio filmato a carissimo prezzo (interviste, tg d’epoca, archivi, documenti) che mettersi a fare il documentario, tanto dovrebbe comunque appaltare all’esterno. La Rai però è corsa ai ripari con “Lontano da casa”, risposta di Viale Mazzini a “SanPa”, che “racconta senza filtri il tema della tossicodipendenza nelle generazioni più giovani, un problema che l’emergenza sanitaria rischia di far passare in secondo piano”. 

MM Quello che è affascinante però è come sia stato possibile inoculare la cultura d’impresa californiana nell’utenza italiana statalista e rintronata. Reed Hastings, il fondatore di Netflix,  è il prototipo della Silicon Valley cinematografara: libertario, surfista, il suo manuale di management si intitola “L’unica regola è che non ci sono regole”, ed è già studiatissimo nel mondo. Tutto all’insegna del più sfrenato pensiero neoliberista: assumete solo i  migliori a cui darete stipendi altissimi. Incoraggiate i vostri dipendenti a fare colloqui di lavoro. Se gli offrono di più, voi raddoppiategli lo stipendio. Licenziate tutti gli altri. Al sentire queste cose il cavallo della Rai nitrisce come in Frankenstein Junior. Come il neoliberismo netflixiano si sia fuso con la cultura del fax e dello statalismo antagonista italiano è un mistero. Ci voleva l’erede dell’ideatore dell’Ulivo per realizzare questo compromesso storico. 

AM: Eleonora Andreatta detta Tinny, figlia di Beniamino, economista e politico illuminato DC, la madre di tutte le fiction Rai, che come si sa è andata dirigere Netflix Italia. Dopo la guerra, si scatenò, grazie a Andreotti, la “Hollywood sul Tevere”; dopo il covid, avremo la “Netflix sul Tevere” con Andreatta. Un rilancio dei kolossal italiani, un "Ben Hur" coi monopattini. Chissà. Tutti si sono molto stupiti di questo passaggio, ma forse Andreatta aveva un contratto Rai senza clausole ed è stato molto più facile del previsto. Nel mondo normale non è che passi da HBO a Netflix così, hai dei contratti che ti bloccano con penali e altro, sono trattative complesse. La Rai invece fa i contratti come se fossimo negli anni ‘50, come se non ci fosse la concorrenza che ti porta via i dirigenti. Prendere Andreatta, una che alle spalle ha venticinque anni di fiction Rai, è stata una gran mossa. Sceneggiatori, registi, produttori, non hanno giurato fedeltà alla Rai, ma a lei. E dove le va, la seguono. 

MM: Come Mike Bongiorno che passa a TeleMilano, la futura Canale 5,  a fine anni Settanta, a causa delle lungaggini burocratiche e della puzza sotto il naso della Rai che non lo trattiene, sottovalutando la tv di quel “palazzinaro brianzolo”. Ma anche la sede fisica di Netflix, scelta a Roma e non a Milano, e forse decisa da un algoritmo immobiliare, è pura storia d’Italia. Il famoso villino Rattazzi alle spalle di via Veneto è uno dei due voluti dal governo unitario per la famiglia del conte Urbano, terzo presidente del Consiglio del regno d’Italia; nel cuore di quella che era la villa Ludovisi, parco pazzesco, prima speculazione immobiliare di Roma: la dinastia sventrò infatti la villa di città (oggi quartiere Ludovisi, appunto, con omonimo parcheggio) per lottizzare, seguì crack e scandalo, ne scrisse pure Emile Zola. 

AM: Netflix potrebbe anche farci una serie, sul villino Netflix. Un “House of streaming”. Questo villino Rattazzi coi suoi segretissimi big data è già un pezzo di Silicon Valley romana che fa sognare la città. Non avremo Starbucks ma c’è Netflix. 

MM: Finalmente tra l’altro saranno visibili, questi emissari di Netflix, avranno un corpo, li si potrà vedere. Perché non so tu, ma ormai io sento un sacco di gente che dice “sto facendo questo progetto con Netflix”, che è un po’ “Ho lavorato nell’ultimo Woody Allen” (ma mi hanno tagliato al  montaggio). E’ tutto un “ho appena parlato col capo dei contenuti di Netflix”, e non si sa se è la solita mitomania italiana, o se è vero, e però nessuno li ha mai visti, questi di Netflix. 

AM: Ecco, Netflix ha anche tirato fuori questa nuova figura tremenda. Il regista del Pigneto che ora ti dice, “guarda che il mio film l’hanno visto in 190 paesi” (ma forse sempre 190 persone).

MM: E chissà i netflixiani dove e cosa mangeranno, se importeranno avocado e kale californiani o sbracheranno nelle pizze bianche intorno a via Ludovisi (Gargani diventerà il nuovo Settembrini?). Rinascita della decotta via Veneto con star a passeggio come ai bei tempi? O faranno smart working da Santa Marinella, la nostra Santa Cruz (surfisti compresi)?  

AM: Certo, loro hanno questo modello di iperflessibilità, molto siliconvallico, per cui ti prendi tutto il tempo libero che vuoi (“i dipendenti di Netflix possono prendersi tante vacanze quante ne desiderano”, è uno dei mantra dell’azienda). Da noi hanno solo da imparare, la vacanza quando-vuoi è il cuore dell'algoritmo di Atac.  Ci manca però la dimestichezza con la cancel culture.

MM: A Roma e in Italia si cancellano solo le corse degli autobus, non c’è pericolo. E se il motto di Shonda Rhimes, regina della serialità nell’epoca di Netflix è: “se non ti piace il tuo passato, riscrivilo”, questo apre un interessante spaccato su opere come “Mank”, con la Hollywood queer e inclusiva, e “Bridgerton” col duca bonazzo di colore e la regina nera. Ma se sommiamo questo slogan con quello oggi di Netflix - "In Italia le grandi storie esistono già, basta solo raccontarle" - capisci che si aprirebbero infinite possibilità. Non so:  la sposa bambina di Montanelli che torna, rediviva, va a “C’è posta per te”, lo sputtana; segue distruzione della statua a porta Venezia, e sostituzione con busto di Eugenio Scalfari. O ancora: un “Promessi sposi” inclusivo, con Don Rodrigo aitante duca nero che perseguita una Lucia Mondella in lotta col patriarcato nella Milano secentesca. 

AM: “In Italia Le storie ci sono già! Basta raccontarle”: il claim italiano di Netflix serve forse per rassicurare sceneggiatori non attivissimi. Claim che passa sulla Rai con grande effetto perturbante, come se ti siedi da McDonald e sul vassoio c’è la pubblicità di Burger King.  Comunque la tv retroattiva di Netflix è fantastica. Un interessante caso è quello dell’“Isola delle rose”,  il sogno libertario di un ingegnere di destra e l’hanno trasformato in una roba sessantottina.  Ma perché?

MM: Perché l’algoritmo di Netflix ha capito che per avere successo in Italia devi mischiare un po’ di Rai3 e un po’ di Rete4.  Come nella vita, no?

AM:  A larghe intese, ma senza banda larga. 

FINE 

 

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