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The Razzi show

Il problema non è il selfie con Assad. E’ che la nostra politica estera ha lasciato campo libero agli improvvisatori

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C’è un momento in cui la commedia politica italiana, mentre percorre l’accidentato percorso tra l’intrattenimento, lo show e gli affari pubblici, smette di far sorridere. E’ il momento in cui le cose si fanno serie, diventano questioni internazionali, e l’arte politica diventa diplomazia, esperienza, saper stare al mondo, e poi anche Realpolitik, interesse nazionale, perfino l’immagine di un paese. Così, in un Parlamento abitato da cittadini eletti che credono alle sirene e negano l’allunaggio, nel luogo sacro della democrazia che ospita documentari sul complotto delle scie chimiche e dichiarazioni stenografate sull’inside job dell’11 settembre, insomma, in un contesto così, è difficile notare il peggio. Ma il peggio esiste: si nota quando l’attività parlamentare assume la forma dell’avanspettacolo, ed è proprio in quel momento che la popolarità diventa una maschera di Giano, con due facce. Da una parte fa ridere, dall’altra è grottesca, spaventosa, e più di ogni altra cosa: pericolosa.

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C’è un momento in cui la commedia politica italiana, mentre percorre l’accidentato percorso tra l’intrattenimento, lo show e gli affari pubblici, smette di far sorridere. E’ il momento in cui le cose si fanno serie, diventano questioni internazionali, e l’arte politica diventa diplomazia, esperienza, saper stare al mondo, e poi anche Realpolitik, interesse nazionale, perfino l’immagine di un paese. Così, in un Parlamento abitato da cittadini eletti che credono alle sirene e negano l’allunaggio, nel luogo sacro della democrazia che ospita documentari sul complotto delle scie chimiche e dichiarazioni stenografate sull’inside job dell’11 settembre, insomma, in un contesto così, è difficile notare il peggio. Ma il peggio esiste: si nota quando l’attività parlamentare assume la forma dell’avanspettacolo, ed è proprio in quel momento che la popolarità diventa una maschera di Giano, con due facce. Da una parte fa ridere, dall’altra è grottesca, spaventosa, e più di ogni altra cosa: pericolosa.

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L’immagine di un sorridente Razzi fotografato accanto ad Assad è stata pubblicata dallo stesso senatore su Twitter

Tutto questo noioso preambolo è necessario per arrivare all’argomento mainstream e social del momento, il selfie del senatore Antonio Razzi. Nell’ultima settimana il tema ha riempito le colonne dei giornali italiani, turchi, siriani. L’immagine di un sorridente Razzi fotografato accanto al presidente di Damasco Bashar el Assad è stata pubblicata dallo stesso senatore della Repubblica sul suo profilo twitter personale. A riportare la discussione a un livello più serio è stato l’editoriale di Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera: “Ma da ieri, da quando Razzi si è appartato dalla delegazione europea in visita a Damasco e si è messo a scattare un selfie ridanciano con il tiranno siriano Assad, massacratore seriale del suo stesso popolo, e lo ha diffuso per farsi un po’ di pubblicità, da quel momento il riso si è spento, ogni ironia è inevitabilmente sfiorita, e ogni caricatura ha perduto il suo mordente”. Ma è già da un pezzo che qui si è smesso di ridere. Perché il selfie di Razzi con Assad – o meglio, la presenza di Antonio Razzi nella delegazione russa che ha portato alcuni parlamentari e giornalisti a Damasco – è soltanto l’ultima rivelazione di un problema ben più serio: la politica estera italiana è un disastro, ha mollato la presa, e lasciato un vuoto. E quei vuoti, si sa, vengono di volta in volta riempiti da chi, in nome di un ruolo istituzionale, costruisce relazioni personali senza dover rendere conto a nessuno. Basti pensare al deputato M5s e membro del Copasir Angelo Tofalo, che è finito in un guaio più grande di lui. E parliamo della Libia, al centro dei nostri interessi nazionali. Ma più il paese è lontano, esotico, più si avverte questo sfilacciamento delle relazioni che un tempo rappresentavano la grandezza di un paese.

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Il senatore Antonio Razzi è un prodotto della Repubblica dei Crozza, dell’avanspettacolo, della televisione, di quei programmi che hanno consegnato popolarità –  e quindi un personale potere mediatico – a un uomo che da anni gioca con le sue due maschere. Quella seria, di rappresentante del popolo e di segretario della Commissione Esteri del Senato, e quella personale, fatta di viaggi e missioni, di doni, di bottiglie di vino abruzzese con il suo volto impresso sull’etichetta.

E’ un uomo simpatico, Razzi, se non altro autoironico. E’ pacato, evita il turpiloquio e le volgarità molto più di alcuni suoi colleghi, pur nell’italiano zoppicante. Si presta con scientifica disponibilità a gag al limite del ridicolo, come quando a “Scherzi a parte” fu abbandonato in un parcheggio travestito da Elvis Presley, con una tutina rosa. Su Twitter Razzi (che nella bio scrive “Senator of the Italian Republic”) ha 26 mila follower, e lui stesso segue oltre 29 mila utenti. Ha un modo un po’ insolito di utilizzare il social network, rituittando chiunque lo menzioni, perfino chi lo insulta, rispondendo soprattutto alle domande sceme, ed evitando accuratamente quelle più serie. E non c’è alcuna colpa – nessun reato – nel recitare una parte. Ma qualcosa succede, se improvvisamente le due maschere si sovrappongono, e non si capisce più chi è l’uomo e chi il politico.

 

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Antonio Razzi si occupa di politica estera, a modo suo, sin dal 2000, quando entrò nella neonata Italia dei Valori come responsabile degli Esteri. Nel 2006 venne eletto per la prima volta alla Camera dei deputati con il partito di Antonio Di Pietro. Tre anni fa, ai microfoni di “Un giorno da pecora”, fu lo stesso ex pm a raccontare l’arruolamento del senatore abruzzese: “Volevo prendere un emigrante che andasse in Parlamento a far sì che l’Italia risorgesse. Dato che ero parlamentare europeo a Strasburgo, organizzai una manifestazione con questo scopo”. Lì, a Lucerna, dove Razzi faceva l’operaio sin dagli anni Sessanta, Di Pietro riconobbe “nella sua chioma bianca” il futuro candidato della Circoscrizione Estero-Europa. “Veniva dalla società civile”, ha detto Di Pietro ospite della trasmissione “Lei non sa chi sono io” nel 2015, “ho pensato: un emigrante che rappresenta la storia italiana degli emigranti nel mondo, lo porto in Italia e si vende l’anima a Berlusconi. Ma datemi solidarietà invece che offendermi”. E’ il 2010, quando Antonio Razzi decide di salvare il governo Berlusconi e votare contro la sfiducia, aderendo al partito Noi Sud. Con lui c’è pure Domenico Scilipoti. Nel 2010 Di Pietro fece un esposto alla procura di Roma per il “tradimento”, che secondo l’ex pm era stato pagato profumatamente da Berlusconi. Sei anni dopo, nel provvedimento di archiviazione, il gip ha scritto che nella scelta dei candidati Di Pietro utilizzò “modalità approssimative”, nella totale “assenza di acquisizioni e analisi delle capacità, competenza” dei candidati. Nel frattempo, Razzi era diventato un simbolo di “sincerità” (tà-tà) per alcune esternazioni convincenti, tipo: “Io per dieci giorni non pigliavo la pensione. Ho detto: ché, se c’ho 63 anni, giustamente, dove vado a lavorare io? Mi spiego? Ho pensato anche ai cazzi miei”. E tutt’oggi il motto di Razzi, ripetuto come un mantra e stampato sulle magliette dei suoi sostenitori, è l’illuminante “fatte li cazzi tua”. Come dire che anche senza le battute di Crozza il personaggio del senatore arrivista e dall’italiano stentato avrebbe potuto vivere di vita propria.

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“I miei viaggi sono a titolo personale”, dice a chi gli chiede il motivo dei suoi annuali pellegrinaggi a Pyongyang

Si dice che in Corea del nord ormai tutti conoscano Giuliano Teatino, il paese nella provincia di Chieti, in Abruzzo, che ha dato i natali al nostro. E’ infatti dal 2010 che Antonio Razzi frequenta Pyongyang. “I miei viaggi sono a titolo personale”, dice a chi gli chiede il motivo dei suoi annuali pellegrinaggi in uno dei paesi più isolati al mondo, ormai da quasi un decennio sottoposto a strettissime sanzioni internazionali.  “Viaggi personali” che però tra gli addetti ai lavori sono considerati una forzatura. Perché l’Italia ha un rapporto ancora irrisolto con la Corea del nord: ospita un’ambasciata nordcoreana a Roma, ma non ha un ufficio diplomatico nella capitale coreana. E non è un caso che tutte le delegazioni che hanno partecipato ai viaggi in Corea del nord con Antonio Razzi, compreso il leader della Lega Matteo Salvini nel 2014, poi non parlino più di quella “missione”, ma nemmeno della Corea del nord, per evitare di dire scemenze. Di ritorno dal viaggio, tre anni fa, Matteo Salvini commentò ai microfoni di Repubblica tv: “Che si faccia ironia è positivo perché il sorriso fa bene alla salute”. Disse: “E’ stata una mia scelta, un viaggio pagato di tasca nostra, c’è chi va a Ibiza, c’è chi va in Sardegna, io ho scelto di andare a vedere un paese sconosciuto”. Dunque un viaggio personale, ma Salvini è un leader di partito, ed è per questo che ha avuto l’occasione di incontrare e stringere la mano a Kim Yong-nam, presidente dell’Assemblea suprema del popolo, uno degli uomini più vicini a Kim Jong-un.  Di più. A un certo punto Salvini, pur riconoscendo che in Corea del nord non ci sono libertà fondamentali, dice che “per le imprese italiane è una terra fertile”. Ma la Corea del nord è sottoposta a sanzioni internazionali, e secondo i dati dell’Italian trade agency, le poche aziende italiane autorizzate, tra il gennaio e il settembre del 2015 hanno esportato in Corea del nord beni per 605 mila euro, un dato in calo rispetto allo stesso periodo del 2014 del 10,6 per cento.

 

Quest’anno, la rappresentanza italiana alle Nazioni Unite ha implementato prima di molti altri paesi le nuove sanzioni economiche contro Pyongyang (sanzioni incrementate dopo gli ultimi test atomici e missilistici). Per via di queste nuove regole, pochi mesi fa un uomo che dall’Italia voleva spedire in Corea del nord alcune pinne da nuoto, per un valore complessivo di poco più di trecento euro, è stato fermato e multato. Eppure ogni anno, durante il viaggio di Razzi in Corea del nord, si legge sull’agenzia di stampa ufficiale di Pyognyang: “Il supremo leade Kim Jong-un ha ricevuto un dono da parte di Antonio Razzi, segretario generale della Commissione Affari esteri del Senato italiano, e del suo partito”. Il senatore quindi trasferisce, dall’Italia alla Corea del nord, beni non di modico valore da donare al mausoleo dei Kim. Doni da parte  sua ma anche “del suo partito”, cioè Forza Italia.

 

Ma c’è anche un’altra questione. E’ importante mettersi d’accordo sulla definizione di “viaggio a titolo personale” e “missione”. Lo scorso anno, per esempio, sul sito internet personale di Razzi si leggeva: “Partito ieri (26 agosto) per un viaggio in Corea del nord e Mongolia a capo di una delegazione composta anche da colleghi parlamentari”. La delegazione era composta da lui e da Bartolomeo Pepe, senatore della Repubblica, ex Movimento cinque stelle e ora nel gruppo misto, famoso per le sue esternazioni antivacciniste e sul complotto delle scie chimiche. I due senatori avevano effettuato la visita durante le ferie e dunque, secondo i funzionari del Senato, non era stato necessario comunicare preventivamente la loro destinazione. Come riportato su queste colonne lo scorso anno, e dichiarato da almeno due fonti che per motivi di sicurezza preferiscono restare anonime, Pyongyang cerca di invogliare le figure istituzionali a compiere questi viaggi ospitando i capi delle delegazioni. Una pratica pressoché impossibile da verificare, ma che in altri paesi asiatici è stata spesso oggetto di critiche. “Io costruisco ponti per la pace”, dice spesso Razzi, criticando chi decide per ideologia o pregiudizio di chiudere alla via del dialogo con alcuni paesi, e in un certo senso ha ragione. Ma il dialogo con la Corea del nord un tempo veniva portato avanti dai ministri degli Esteri (nel 2000 fu Lamberto Dini a principiare questo rapporto privilegiato dell’Italia con Pyongyang). Poi ci furono Gianni Vernetti, Paolo Romani, Jas Gawronski. Oltre a Giancarlo Elia Valori, e a personaggi meno conosciuti come Mario Carniglia della Otim, Organizzazione trasporti internazionali e marittimi, che da anni lavora con la Corea del nord e in generale in Asia. Quel lavoro di dialogo di cui parla Razzi si fa sottobanco e sottovoce, senza proclami, senza selfie. Oggi il ministero degli Esteri non può intervenire sui “viaggi a titolo personale” di un senatore della Repubblica, ma il corpo diplomatico può domandarsi se non si rischia di mandare un messaggio sbagliato, lasciando che Pyongyang usi sistematicamente queste visite per la sua propaganda interna. 

 

Dopo la visita in Corea del nord, lo scorso anno, la delegazione italiana guidata da Razzi e Pepe si è recata a Ulaanbaatar, in Mongolia. Per anni l’Italia non ha avuto relazioni diplomatiche con la Mongolia, uno dei paesi asiatici che sta più crescendo economicamente (non a caso una delle ultime copertine del Nikkei Asian Review era dedicata alle opportunità di business nel paese asiatico). Nel 2016, dopo un lungo lavorìo diplomatico, Roma e Ulaanbaatar hanno aperto le rispettive ambasciate, e la prima delegazione italiana (ufficiale?, non ufficiale?) ricevuta nella capitale mongola è stata quella di Razzi e Pepe. Sotto la fotografia insieme con gli ufficiali mongoli, pubblicata sulla sua pagina Facebook, Pepe aveva scritto: “Mi dicono che a mongoloidi sono già coperti”. Contattata dal Foglio, l’ambasciata della Mongolia in Italia non aveva voluto commentare.

 

Secondo alcune indiscrezioni, Razzi dovrebbe partire di nuovo per la Corea del nord ad aprile: in tempo per le celebrazioni dell’anniversario della nascita di Kim Il-sung.

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