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Madri si diventa

Brenda Navarro

“Vai a partorire tuo figlio al paese tuo”, e tutto lo sconforto che si trasforma in speranza

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In un libro di Velibor ČColicć nell’esergo di Camus si legge: “Tutte le disgrazie degli uomini derivano dalla speranza”. Penso a tutti gli interrogativi che accompagnano la scelta di diventare madre oppure no in un contesto che non incoraggia affatto la maternità. Che futuro saremo in grado di creare e come? Cosa ci spinge a voler essere madri? C’è una speranza?

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In un libro di Velibor ČColicć nell’esergo di Camus si legge: “Tutte le disgrazie degli uomini derivano dalla speranza”. Penso a tutti gli interrogativi che accompagnano la scelta di diventare madre oppure no in un contesto che non incoraggia affatto la maternità. Che futuro saremo in grado di creare e come? Cosa ci spinge a voler essere madri? C’è una speranza?

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Per noi donne, il più delle volte, è lo sconforto il punto di partenza. E’ lo sconforto che ci spinge a cercare forme nuove di relazione con il mondo. La speranza non è il destino delle madri, è piuttosto lo sconforto – e qui ti contesto, Camus – che ci spinge a cercare la possibilità di una svolta.

 

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“Una casa cos’è, di cosa è fatta? Quando iniziamo ad essere genitori e figli? E’ successo forse quando Nagore mi ha abbracciato e ha appoggiato la testa sulla mia pancia che le ha risposto con dei colpetti come quelli di chi bussa per farsi aprire la porta? O quando Daniel è sgusciato fuori così esausto che hanno dovuto dargli l’ossigeno e non ho potuto tenerlo in braccio prima di una settimana? Quando inizia a essere casa e di cosa è fatta?”.

 

Pensiamo – ma davvero lo pensiamo? – che sarà a casa che troveremo riparo dal vuoto che ci imprigiona da adulte. Ci convinciamo che, una volta che abbiamo messo al mondo un’altra vita, non saremo più costrette a vagare senza meta, è la quotidianità a riportarci poi coi piedi per terra.

 

“Dopo la nascita di Daniel mi sentivo cieca e paralizzata, come chi cammina a tastoni per non cadere, si aggrappa ai muri per tenersi in piedi davanti al mondo, brancolavo senza una direzione. C’erano però volte in cui nell’odore di latte fermentato tra le pieghe del collo di Daniel e nell’innocenza crepata di Nagore, sentivo che tutto sarebbe andato bene. L’istinto di sopravvivenza è anche questo, e mi sembra proprio una grande cazzata”.

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Silvia Federici afferma che “il sistema cerca di controllare dove e quando nascerà la sua nuova forza lavoro e che prototipo avrà” e ciononostante, – o forse proprio nell’ignoranza di questo destino quasi ineluttabile – continuiamo a partorire. Qualunque sia il nostro posto nel mondo. Potremmo avere la ventura di nascere in un luogo in cui portare avanti una gravidanza tranquilla o, al contrario, essere madri e ricostruire la nostra alterità ad altre latitudini.

 

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“Vai a partorire tuo figlio al paese tuo” mi hanno urlato una volta sulla calle de Girona”.

 

Non sfuggiremo mai al peso di dover decidere se diventare madri oppure no. In molte parti del mondo, l’aborto, provocato o spontaneo, non è benvisto. Segue il giudizio, addirittura il carcere. Non si salva nessuna, è il nostro ventre disabitato o no a decretare la legittimità delle nostre decisioni.

 

“In ospedale continuavano a infilarmi l’ago, perché avevo le vene troppo piccole e le infermiere parlavano tra loro come se stavano da sole e dicevano che erano una perdita di tempo quelle che si facevano intortare e mettere incinte, tanti lacrimoni però lo facevano apposta, che eravamo assassine, perché così si chiamano quelle che abortiscono: assassine…”.

 

Il problema è che ci chiedono di incarnare un modello irreale di madre, di alimentare un ideale illusorio, di caricarci sulle spalle il peso di un’abnegazione per la quale le nostre singole vite vengono sacrificate per il benessere altrui. Non ci accettano per ciò che siamo davvero, ma ci relegano al ruolo stereotipato di madri che nella realtà non esistono.

 

“Era meglio se Leonel non arrivava proprio nella nostra vita. Era meglio se scoppiava a piangere quando doveva farlo e non dopo, quando eravamo già andati via. Io sono la donna con l’ombrello rosso che ha preso un taxi quando nel parco è iniziata la confusione. Certo che l’ho abbracciato quando si è messo a piangere, però piangeva davvero un sacco; qualche settimana dopo ci hanno detto che è autistico e che forse è per questo che non gli piace quasi niente. In quel momento mi sono pentita di aver voluto essere madre”.

 

Possiamo essere madri senza aspettarci alcuna ricompensa. Forse, se lo Stato, la società, la famiglia partecipassero all’educazione dei figli, certe maternità dolorose lo sarebbero molto meno.

 

“Solo che anche occuparsi degli altri stufa, assecondare Leonel e tutte le sue esigenze, gli ordini delle clienti e quelli, di notte, di Rafael. Non riposavo mai e tutto mi metteva di cattivo umore”.

 

Di cosa stiamo parlando? Del diritto di essere madri o di non esserlo. La possibilità di avere una possibilità, di avere un desiderio che non sia ostaggio delle leggi del mercato ma l’atto gratuito e amorevole di promuovere la vita. Di distruggere ogni tipo di frontiera. Di fare in modo che la maternità possa giovarsi della condivisione. La sfida: riempire le case vuote di relazioni. Togliere il prezzo al desiderio. Resistere. 

 

E’ in libreria “Case Vuote”, edito da Giulio Perrone editore e tradotto da Carlotta Aulisio

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