A mezz'ora e trenta giorni dalla fine

Nicoletta Tiliacos

di Claudio Giovanardi, La Lepre Edizioni, 283 pp., 16 euro

Il mondo di Achille Antinelli, vedovo senza figli e impiegato in pensione, è confortevole come una vecchia pantofola. Qualche svago innocente, qualche rara rimpatriata con gli ex colleghi, la frequentazione del tutto casta con una pur piacente vicina di casa, la signora Attili, che era stata grande amica della moglie defunta, qualche buon libro, anch’esso eredità della moglie insegnante di liceo, buona musica. Ma è la collezione di tazze da tutto il mondo a raccontare davvero chi è Antinelli. Piccoli trofei di viaggi altrui, più che dei pochi fatti di persona, che gli permettono di fantasticare su luoghi lontani senza le inevitabili noie dei viaggi veri. Quelle tazze sono il compendio di ciò che ora è la sua vita: nessun particolare problema, né di salute né economico, e nemmeno figli o vecchi genitori o animali da compagnia che reclamino attenzione o accudimento. Solo lo sterminato orizzonte del tempo libero di fronte a sé, l’infinito dispiegarsi delle cose che si possono fare e, meglio ancora, non fare. Eppure Achille, che del suo omonimo omerico sembra rappresentare il geometrico opposto, è destinato a vivere (o a sognare?) un’avventura a suo modo epica, che lo vedrà colluttare con le leggi del tempo e con quelle dell’umana alternanza di sonno e veglia. Perché in quel suo crogiolarsi compiaciuto nell’assenza di ogni obbligo, in quel supposto affrancamento dalla necessità di mettere la sveglia per precipitarsi a fare alcunché, ecco che irrompe l’imprevisto, il fantastico, il mostruoso. La tirannia del tempo, data per liquidata, gli si manifesta con un volto maligno. Achille Antinelli si accorge un po’ per volta – una serie di fastidiosi incidenti glielo fanno capire – che ogni giorno, voglia o non voglia, sveglia o non sveglia, dorme un minuto in più. Prova a dirsi che non può essere vero, che non siamo mica in una puntata di “Ai confini della realtà” e nemmeno in un racconto di Philip K. Dick. Non si rassegna, le prova tutte per curarsi, anche certe pillole che gli ha procurato l’assertivo cognato Nandino, uomo che ha sempre avuto il potere di innervosirlo. Poi deve arrendersi. Ogni giorno quel sonno granitico dura sessanta secondi di più e non c’è niente che possa interromperlo, se non la sua “naturale” scadenza, sempre che in quel fenomeno ci sia qualcosa di naturale. Finché, arrivato a mezz’ora di veglia quotidiana, Achille capisce che gli rimane un solo mese di vita. Di vita cosciente, sarebbe più giusto dire, perché la certezza che alla fine del mese ci sia la morte, nessuno, onestamente, può averla, e magari all’ultimo si scopre che le pillole di Nandino hanno fatto effetto (fosse un mito greco, invece di un incubo contemporaneo, si potrebbe perfino ipotizzare una replica nel destino di Endimione, eterno dormiente per volontà della dea lunare Selene, invaghita di lui). Ma intanto il sonno, sempre più invadente, sembra spremere dai pensieri di Achille Antinelli mille particolari dimenticati o mai messi a fuoco come meritavano. Personaggi principali e secondari, amici e nemici, atti mancati, soddisfazioni e frustrazioni, occasioni perdute, cose non dette o dette malamente, gelosie postume nei confronti della moglie morta, fantasmi di rivali veri o presunti, ma anche teneri ricordi infantili, episodi ridicoli, conversazioni, cose cominciate e mai finite, lampi di felicità e voragini di noia: la vita, insomma. “Achille continuava a navigare a fari spenti nell’oceano della memoria. Gli passava davanti tutto e di tutto si cibava, senza scartare nulla”. Giovanardi riesce a calibrare con maestria i toni del grottesco e del tragico e il progressivo cambio di passo dei pensieri del suo personaggio, costretto dalle inaudite circostanze a un bilancio filosofico della propria e di qualsiasi esistenza. Cosa che alla fine, probabilmente, non gli dispiace affatto.

 

A MEZZ'ORA E TRENTA GIORNI DALLA FINE
Claudio Giovanardi
La Lepre Edizioni, 283 pp., 16 euro

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