Il fiero pasto

Redazione
Angelica Aurora Montanari
Il Mulino, 256 pp., 22 euro

    Era davvero professato il cannibalismo nel Medioevo o si tratta solo di narrazioni fantastiche?”, si domanda nell’Introduzione al volume la storica Angelica Aurora Montanari. “Ebbene sì”, è la risposta: “Anche i nostri antenati furono spinti, in alcune circostanze, a mangiare carne umana, sebbene l’antropofagia non fosse praticata in maniera diffusa e sistematica”. Mancava, nel panorama scientifico nostrano, un saggio così completo capace di indagare quel che è da sempre considerato un tabù inenarrabile, il cannibalismo diffuso a queste latitudini. E’ un viaggio lungo la storia, dai primi secoli del cristianesimo fino all’età moderna. L’occhio indagatore dell’autrice si ferma sull’occidente, Italia centro-settentrionale e area franco-normanna in particolare. Le fonti usate sono molteplici, si va dalle cronache ai memoriali di viaggio, dalle fonti normative e legislative a quelle etnografiche e cartografiche. E poi testi medici, agiografici, teologici, exempla, immagini e narrazioni letterarie. Non c’è pericolo di far confusione o di immergersi in complesse dissertazioni scientifiche: l’opera è accessibile a chiunque voglia documentarsi su un tema che rimanda, inevitabilmente, al canto infernale dantesco di Ugolino e dell’arcivescovo Ruggieri – “la bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’capelli del capo ch’elli avea di retro guasto”. Ogni capitolo (ve ne sono otto nel complesso) offre spunti di riflessione che una lettura superficiale, quasi si trattasse di puro divertissement, potrebbe portare a ignorare. Così, già all’inizio, quando si parla dei “morsi della fame”, di crisi alimentare e carestie, ecco porsi la domanda basilare per la ricostruzione dell’identikit del divoratore: “L’antropofagia mossa dalla fame presuppone l’assassinio?”. Anche qui, la risposta è quella più cruda: “Il cannibalismo – scrive Montanari, numeri alla mano – implica l’omicidio in almeno la metà dei casi riportati dalle cronache delle carestie; soltanto una minoranza di fonti parla esplicitamente di semplice necrofagia, mentre altre non specificano, lasciando immaginare al lettore le varie strategie di reperimento della carne umana ammannita a mensa”. Ma è la parte riservata alla mumia (che nulla ha a che fare con le mummie dell’antico Egitto) che incuriosisce più d’ogni altra. Da originaria miscela di pece e asfalto, la mumia diviene prima “liquamento d’huomini” e poi, in età moderna, carne umana essiccata, considerata un medicamento d’eccellenza, tanto da portare Claude Dariot, allievo di Parecelso, a raccomandare l’uso “di carne umana, che sia di un corpo sano, ben temperato e non morto di malattia”. Di solito, infatti, si sceglievano i morti a penzoloni sulla forca, nottetempo trafugati. Ancora nel Seicento, il medico Lancillotti forniva una ricetta per il trattamento domestico della carne umana. Importante è che il corpo a disposizione sia “fresco, giovane, senza alcuna putredine, morto di morte violenta e non di alcuna infermità, possibilmente d’un uomo di colore e pelo tirante al rosso”. Pure le ossa e il grasso venivano recuperati:  “Per la similitudine delle loro nature, danno e forniscono più sollievo al corpo di qualsiasi altra medicina”. Il problema, più che le ricette mediche, era rappresentato dall’antropofagia rituale. Accusati furono i manichei e poi i valdesi, “tacciati di ingerire polveri o liquami ricavati dalla carne dei bambini uccisi e conservati in fiaschi e otri”. Ma furono soprattutto gli ebrei, già dal Primo secolo, a finire sul banco degli imputati. E ci sarebbero voluti secoli prima che la diceria fosse messa a tacere per sempre.

     

    IL FIERO PASTO
    Angelica Aurora Montanari
    Il Mulino, 256 pp., 22 euro