Roberto Monaldo / LaPresse 

Lettere

Il M5s che vuole il 2 per mille è il populismo che rottama il populismo

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso divenni amico del giovane costituzionalista Beniamino Caravita di Toritto che era stato l’ideatore di gran parte dei più seri referendum  proposti dai Radicali. Uscito nel 1992 dal parlamento dove avevo potuto vedere i marchingegni finanziari messi in atto dai gruppi per avere soldi pubblici senza controllo, chiesi a Beniamino se aveva voglia di preparare una legge che attuava l’art. 49 della Costituzione sui partiti mettendo a punto un realistico sistema di finanziamento senza cadere nell’iperstatalismo e nell’iperprivatizzazione. Grazie alla sua maestria, preparammo un decalogo di princìpi a cui ispirare la legge: 1) assicurare l’uguaglianza delle chance dei soggetti politici ed elettorali, 2) scoraggiare la nascita di partiti senza radici, evitare la frammentazione artificiale del sistema politico, 3) far funzionare finanziariamente alla luce del sole i partiti e le altre forme di attività di politica democratica, 4) impedire la spirale dei costi, 5) sottrarre la politica all’influenza economica, 6) favorire la partecipazione dei cittadini, 7) rispettare le volontà individuali senza affidare tutto allo stato, 8) tutelare i diritti dei membri di partito, 9) mettere gli individui e le organizzazioni in grado di sostenere in maniera volontaria gli interessi in politica, 10) evitare che la politica sia sottomessa a influenze esterne, compresa quella del potere giudiziario. Si manteneva così il carattere di associazioni private dei partiti ma li si legalizzavano con la costituzione di un “registro nazionale (e locali) dei partiti e movimenti” la cui iscrizione con controllo della trasparenza dava accesso alla duplice forma di finanziamento, privato  e pubblico. Il privato con la liceità di erogazioni liberali di persone fisiche e giuridiche direttamente al partito prescelto entro soglie detassate. Il pubblico con un rimborso elettorale a posteriori per ogni voto ottenuto. Quella “proposta di buongoverno” fu allora oggetto di un convegno della Fondazione Einaudi e, più tardi, della pubblicazione in appendice del mio libro “Soldi e Partiti. Quanto costa la democrazia in Italia?”, Ponte alle grazie, 1999. Il merito di quella proposta, che mi pare conservi tutta l’attualità, va a Beniamino Caravita che voglio qui ricordare come un sapiente costituzionalista con i piedi nella realtà e la testa nel buon diritto.  
Massimo Teodori   

Chissà come avrebbe sorriso, Beniamino Caravita, oggi nel vedere persino il M5s costretto a mettere da parte un pezzo della sua retorica anticasta chiedendo di iscriversi al registro dei partiti per accedere al finanziamento pubblico del 2 per mille. Il populismo che rottama il populismo. Spettacolo puro.


Al direttore - Da quando Olaf Scholz ha annunciato il suo aumento in Germania fino a 12 euro (lordi) orari, tutti pazzi per il salario minimo. Ma, come è noto, l’idea stessa del salario minimo legale è avversata dai sindacati italiani, i quali temono così di essere delegittimati e svuotati di potere negoziale. In verità, essa non avrebbe senso ove fosse in vigore l’articolo 39 della Costituzione, che, conferendo rango di legge agli accordi sottoscritti unitariamente dalle parti sociali in rappresentanza della maggioranza degli iscritti, ne assicurerebbe la validità erga omnes. Le tre grandi confederazioni, ma soprattutto la Cisl, in passato si sono sempre opposte all’attuazione dell’articolo 39. Hanno preferito affidarsi alla prassi giurisprudenziale, che per molto tempo ha funzionato egregiamente, in un regime di sostanziale monopolio della contrattazione. Ma oggi le cose sono cambiate. Secondo il Cnel, due terzi dei quasi 900 contratti nazionali censiti sono “pirata”, cioè stipulati da organizzazioni non rappresentative con livelli retributivi largamente inferiori a quelli dei settori di riferimento. Una realtà a cui si aggiunge quella del lavoro sommerso, particolarmente diffuso in agricoltura, in edilizia e nei servizi alla persona. Il salario minimo può essere quindi uno strumento utile, anche se non risolutivo, per contrastare il fenomeno dei “working poor”, ossia di coloro che lavorano ma che stazionano ai confini della povertà. Per funzionare, il valore del salario minimo deve essere però ben calibrato. Se troppo alto, risulterebbe infatti una forzatura per le aree più deboli. Se troppo basso, sarebbe inefficace nelle aree più forti. Quando se ne discusse all’interno del Jobs Act, si fece riferimento a una soglia oraria pari alla metà, o poco più, del salario mediano delle imprese italiane. Mi pare questo il criterio da adottare se si vuole rendere la proposta credibile e sostenibile.
Michele Magno

Di più su questi argomenti: