Cazzola scopre che la bozza del decreto dignità è copiata dalla Cgil

Al direttore - Il professore che presiede il consiglio dei ministri ha, come vice, due studenti fuori corso. Uno di questi, Luigi Di Maio, è supertitolare del Lavoro e dello Sviluppo economico. Non abbiano notizie degli esami che, da iscritto a Giurisprudenza, il ministro ha sostenuto. Di certo manca al suo piano di studi la prova di Diritto del lavoro, perché se avesse una minima infarinatura della materia, si sarebbe risparmiato alcune cantonate, parlando in pubblico nell’esercizio delle sue funzioni. Al Congresso della Uil, davanti a un uditorio di bocca buona, ha voluto illustrare il progetto “grillino” di reddito di cittadinanza, fornendone una versione che sembrava copiata – con modalità meno vantaggiose per i lavoratori – dalla Naspi, la prestazione introdotta dal Jobs Act a tutela della disoccupazione involontaria (ultimo approdo di una legislazione che viene da lontano). Sapevamo, infatti, che il reddito di cittadinanza dovrebbe essere, come sta scritto nel contratto, “uno strumento di sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizione di bisogno. L’ammontare è fissato in 780 euro mensili per persona singola, parametrato sulla base della scala Ocse per nuclei familiari più numerosi”. Di Maio, invece, sia al Congresso della Uil, sia in alcune interviste televisive, si è limitato a indicare, come beneficiari, coloro che perdono il posto di lavoro. Ecco le sue parole: (il reddito di cittadinanza, ndr) “non è dare soldi a qualcuno per starsene sul divano. Ma è dire con franchezza: hai perso il lavoro, ora ti è richiesto un percorso per riqualificarti ed essere reinserito in nuovi settori”. Ecco perché non basterà formarsi, cercare attivamente un’occupazione. In cambio del reddito minimo, “dai al tuo sindaco ogni settimana 8 ore lavorative gratuite di pubblica utilità”. Dunque il lavoro socialmente utile sarà conditio sine qua non per ottenere l’assegno’’. Appunto, tutto ciò che è affidato alla Naspi e all’assegno di ricollocazione: di inoccupati e di lavoratori con un reddito inferiore ai canonici 780 euro mensili non si parla più. Quanto ai lavori socialmente utili sarebbe un’esperienza – anch’essa antica – da non ripetere. Si dirà che non dobbiamo limitarci alle parole ma attendere che la “carta canti’’. Bene. Abbiamo letto, così, la bozza del decreto dignità e notato che il ministro ritiene che, dovendo assumere le aziende, lo facciano secondo le regole imposte dalla legge, per cui è sufficiente ridurre o sopprimere le norme infami della precarietà per avere occupazione più stabile e qualificata. Non gli passa neppure per l’anticamera del cervello (Dio lo riposi!) che “il cavallo si rifiuti di bere’’; e cioè che, pur di non avere in carico manodopera di cui non potrebbe avvalersi con continuità a causa degli andamenti incerti degli ordinativi, qualunque aziende preferirebbe non assumere, anche a costo di rinunciare a commesse rischiose. La somministrazione è un istituto predisposto per tali esigenze (Di Maio ha tacciato di caporalato le agenzie del lavoro). Ma nella bozza del decreto della (in)degnità non solo è penalizzata la somministrazione a tempo determinato, ma viene abolita quella a tempo indeterminato (il c.d. staff leasing): il che è una misura priva di senso visto che si tratta di lavoratori stabilmente alle dipendenze sia dell’agenzia che dell’utilizzatore. Ma il capolavoro del “capo politico’’ e neo ministro lo si trova nella revisione della normativa del contratto a termine, di cui alla riforma Poletti del 2014, la quale ha consentito una discreta ripresa del mercato del lavoro. L’uso discrezionale da parte del datore – senza dover fornire cioè motivazioni – viene ridotto da 36 a 12 mesi. Le eventuali successive proroghe devono rispondere ad esigenze prescritte e perciò accertabili in giudizio (peraltro i termini del relativo ricorso vengono molto ampliati). Tali esigenze, per dare una mano ai giudici, non devono essere generiche, bensì: a) temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive; b) connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; c) relative a lavori stagionali e a picchi di attività stagionali individuati con decreto del ministro del lavoro e delle politiche sociali. Nel leggere queste causali ci è venuto il dubbio di averne già sentito parlare. Infatti la norma è copiata pedissequamente dall’articolo 50 della Carta dei diritti universali dei lavoratori proposto dalla Cgil, il documento che Susanna Camusso si affrettò a illustrare a Roberto Fico, dopo la sua elezione. Si vede che la Confederazione di Corso d’Italia, nonostante la concorrenza della Uil (a proposito la sindaca pentastellata eletta a Imola, proviene da quella organizzazione), continua a fare scuola, come le è stato riconosciuto al momento della elaborazione dei programmi elettorali. Sia detto in conclusione: l’Italia non è il paese del precariato. E’ sbagliato e disonesto confondere i dati dei flussi (dove prevalgono i contratti a termine sia pure in linea con gli standard europei) con quelli dello stock, dai quali risulta che l’86 per cento dei lavoratori dipendenti ha un rapporto a tempo indeterminato. Per carità di patria lasciamo perdere le stecche che Di Maio ha fatto su altri temi, come, ad esempio, quello dei dazi. Glielo hanno spiegato che l’Italia nel 2017 ha esportato beni e prodotti per un valore di 450 miliardi? Quanto al tema delle delocalizzazioni, basta una piccola ricerca su internet, per scoprire che la linea è quella di Maurizio Landini.

Giuliano Cazzola

Quando la politica si svuota, c’è sempre qualcuno che la riempie. Nel migliore dei casi arrivano i mandarini. Nel peggiore dei casi arrivano i restauratori. Qualche volta arrivano i poteri loschi. Ma di solito una politica che rinuncia a fare politica rinuncia anche a fare il bene del paese.

 


 

Al direttore - Come sa, sono un lettore appassionato del Foglio. Ho accolto, quindi, volentieri la richiesta di un’intervista sulla vicenda romana che mi ha rivolto Salvatore Merlo, a seguito di uno scambio su Twitter nel quale Merlo mi era sembrato troppo ingeneroso verso il nuovo Pd romano e della pubblicazione di un’inchiesta molto approfondita sullo stato della nostra città. La chiacchierata è stata piacevole e tutta rivolta al futuro, ma l’intervista uscita ieri rende solo una minima parte delle cose che ci siamo detti. E soprattutto tradisce il senso delle mie parole. In particolare il virgolettato da cui è tratto il titolo e che viene riportato all’inizio del pezzo non è mai stato pronunciato dal sottoscritto. Non corrisponde in alcun modo al mio pensiero, né, naturalmente, a quello che ho detto. Ho ricordato a Merlo quanto provammo, tutti, a sostenere fino all’ultimo l’amministrazione Marino e che quella di chiudere quell’esperienza fu una decisione molto dolorosa per tutti coloro che la assunsero: commissario, assessori, consiglieri comunali. Una decisione costata al Pd un prezzo alto. Ma non ho mai detto quello che mi è stato attribuito. Nell’amministrazione Marino ci sono state cose buone, compreso il lavoro di diversi assessori (ho fatto campagna elettorale con entusiasmo con Giovanni Caudo e soltanto due giorni fa presentavo il libro di Federica Angeli al fianco di Alfonso Sabella, giusto per citarne due), ma si è trattato di un fallimento politico. Dopo il fallimento criminale di Alemanno e prima del fallimento totale di Virginia Raggi. E con l’attuale prima cittadina c’era un tratto in comune: l’arroccamento nel fortino. La pretesa di guidare Roma in solitudine, sempre contro qualcuno. Se qualcosa mi ha insegnato la mia esperienza – e i recenti successi alle regionali e nei municipi accompagnati dall’oggettiva ripartenza del Pd, nuovamente primo partito in città grazie al suo giovane gruppo dirigente – è che Roma non si può governare da soli. Roma si governa solo insieme. Insieme ai cittadini e alle tante forze sane che ci sono, nell’impresa come nel volontariato, nelle professioni e nell’associazionismo. Organizzare un grande riscatto civico della Capitale è il compito che spetta ai democratici, senza attardarci sulle ferite del passato e con lo sguardo rivolto al futuro. Come diceva il mio vecchio amico Mario Di Carlo, che per Roma ha fatto tanto: “Qui non basta aver ragione, te la devono dare”. A questo stiamo lavorando come ho cercato di dire a Merlo in una ventina di minuti: chi cammina in avanti con la testa rivolta all’indietro quasi sempre inciampa. Noi abbiamo scelto una strada diversa: tornare a camminare a fianco dei tantissimi romani che sono stanchi dei fallimenti della Raggi e hanno bisogno di una comunità democratica forte e inclusiva.

Luciano Nobili, deputato Pd

 

Risponde Salvatore Merlo: Caro Nobili, si vede che ha ricambiato idea. Oggi la pensa come l’altro ieri, non come ieri. Forse l’ho intervistata nel giorno sbagliato.

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