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Lettere rubate

Il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio

Annalena Benini

Borgo Sud scava laggiù dove è più difficile non ferirsi. La forza di una sorellanza inquieta

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 I nostri genitori non sono mai venuti a trovarci in quella casa, non sapevano nemmeno dov’era. Dicevano genericamente che stavo – stavamo, poi – a Pescara e pronunciavano il nome come un luogo favoloso, esotico. I cinquanta chilometri di lontananza erano moltiplicati dal loro radicamento stretto al paese. Di me si fidavano, «basta che non dobbiamo cacciare i soldi», dicevano, ma hanno smesso anche con Adriana quella minima vigilanza che poteva sfociare in punizioni manesche. Dopo che mi ha raggiunta si sono ritirati dalla sua vita. – Mo pensaci tu a sòreta, – ha detto mio padre.
Donatella Di Pietrantonio, “Borgo Sud”
(Einaudi, pag. 160)

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 I nostri genitori non sono mai venuti a trovarci in quella casa, non sapevano nemmeno dov’era. Dicevano genericamente che stavo – stavamo, poi – a Pescara e pronunciavano il nome come un luogo favoloso, esotico. I cinquanta chilometri di lontananza erano moltiplicati dal loro radicamento stretto al paese. Di me si fidavano, «basta che non dobbiamo cacciare i soldi», dicevano, ma hanno smesso anche con Adriana quella minima vigilanza che poteva sfociare in punizioni manesche. Dopo che mi ha raggiunta si sono ritirati dalla sua vita. – Mo pensaci tu a sòreta, – ha detto mio padre.
Donatella Di Pietrantonio, “Borgo Sud”
(Einaudi, pag. 160)

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Chi ha già letto l’Arminuta, di Donatella Di Pietrantonio, sarà felice di ritrovare “sòreta”, Adriana, la sorella minore, “come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia”: la resistenza al dolore,  la salvezza della complicità. Chi invece inizia il viaggio da questo nuovo e totalmente autonomo romanzo, resterà avvinghiato a due donne piene di altre delusioni e altre speranze, che portano addosso il peso, l’odio e l’amore per il borgo d’Abruzzo che le ha cresciute disadorne e le ha spinte ad andarsene. Una per studiare, per guadagnarsi un’altra possibilità, l’altra per andare, per sentire la vita, per scappare, per amare. “Nostra madre glielo diceva, ogni tanto: tu sei una zingara. Anch’io poi lo sono stata, in un altro modo”. L’arminuta (“la ritornata”, e anche in “Borgo Sud” c’è il ritorno, forzato e necessario: il richiamo del sangue, della rivelazione e della tragedia) ama e soffre per questa sorella manesca, irruenta e affilata, che non vuole piangere e spiegare e che scombina tutti i piani, che vive ancora in dialetto ma che le si affida e la sfida come si fa con i grandi amori. E’ questo il rapporto assoluto, più importante degli amori sbagliati e dei matrimoni  quieti e traballanti: la sorellanza.

      
“Con Adriana almeno eravamo pari, abbandonate a noi stesse, sole nel mondo, sorelle. Litigavamo per la radio accesa mentre studiavo, la finestra che lei voleva aperta e io chiusa, i suoi orari di rientro. Per ognuna di noi restava la certezza dell’altra al fondo del dolore che non ci siamo mai confessate”. Del dolore non si parla, il dolore lo si porta addosso, anche quando sono i segni dei pugni o quelli dei tranquillanti per dormire. Del dolore non si parla perché il dolore è vivere.
Adriana viene maledetta dalla madre, una vera maledizione arcaica, con il seno avvizzito tirato fuori dall’abito e puntato contro, una maledizione che la madre dirà poi di non saper levare, alzando le spalle come per sminuire la violenza totale e primitiva di quel gesto. “Se sòreta non cambia coccia fa una brutta fine”. Una madre incapace di curare i vivi e due sorelle incapaci di perdonarla, ma anche di fare a meno di lei che ripulisce i peperoni dalla pelle e dai semi, e che guarda arrivare le sue figlie con il coltello a mezz’aria e non dice nulla. In questa triade femminile potentissima entra la scrittura intima e rude di Donatella Di Pietrantonio, capace di scavare fino a dove è più difficile giungere senza ferirsi. “Mia madre si è dedicata tutta a Vincenzo, giú al camposanto. Una specie di anestesia l’ha protetta da noi, i sopravvissuti. Si è lasciata sfuggire Adriana cosí, come si può perdere una moneta o le chiavi di casa. Come aveva perso me a sei mesi. Ha riservato le sue cure all’unico che non ne aveva piú bisogno. Quante volte sono stata gelosa di un morto”.

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Invece le due sorelle, andate e ritornate e poi ancora fuggite, lontanissime o vicinissime al nucleo della loro esistenza e del loro essere convinte di non meritarsi gioia alcuna, si prendono immensamente cura l’una dell’altra. Con poche parole, con grandi gesti, con l’esercizio costante del contrario di quel che conoscono meglio: l’abbandono. Adriana non viene abbandonata. E Adriana, che pure è volubile e ventosa e insofferente a ogni regola, non abbandona la sorella alle bugie del  matrimonio: la salvezza sta ancora lì, fra loro due, come quando erano bambine e dormivano insieme sopra un materasso sporco. Quel che hanno coltivato insieme allora: la libertà interiore, la resistenza, la complicità, adesso è  ciò che  di più vitale le sostiene.  Ora però c’è un figlio, e c’è quella  maledizione che la madre prima di morire ha chiesto di farle togliere, ma chissà se era troppo tardi. Chissà se le catene dell’abitudine alla tragedia si possono spezzare. La felicità c’è stata, ci sono perfino le fotografie a ricordarlo. Ora servirebbe un po’ di pace, e ancora un po’ di amore.    

 

 

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