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Di fronte al coronavirus. Promosso il Servizio sanitario nazionale, bocciata la politica

Come hanno reagito le istituzioni? L’emergenza virus ha messo in luce l’incertezza del quadro normativo e la storica frattura centro-periferia. Le oscillazioni del governo

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Come ha resistito lo Stato al coronavirus? Il modo in cui l’Italia ha affrontato questa epidemia è un interessante “case study” del modo in cui le istituzioni reagiscono a una emergenza.

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Come ha resistito lo Stato al coronavirus? Il modo in cui l’Italia ha affrontato questa epidemia è un interessante “case study” del modo in cui le istituzioni reagiscono a una emergenza.

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L’emergenza ha messo in luce, innanzitutto, un male antico, l’incertezza del quadro normativo: troppe leggi e incerte. La legge del 1978 istitutiva del Servizio sanitario lo definiva “nazionale” e stabiliva che tutti i poteri pubblici vi concorrono. Assegnava chiaramente al ministro della Salute gli “interventi contro le epidemie”. Nel 2001 la modifica costituzionale ribadì che la tutela della salute è materia sulla quale concorrono Stato e regioni, assegnando alle regioni i compiti amministrativi. Non si ridefinirono le competenze in materia di epidemie. L’epidemia di coronavirus ha spinto il governo a ridefinire la materia con un decreto legge (23 febbraio) che consente “ogni misura di contenimento”, da adottarsi dal presidente del Consiglio, d’intesa con ministri e presidenti delle giunte regionali. Perché una nuova norma di legge, ad hoc? E’ la previsione (smisurata) di “ogni misura di contenimento” che spiega perché la competenza non sia del ministro della Salute? Con quanti diritti e libertà (compresa la libertà religiosa e di culto, su cui ha attirato l’attenzione Alberto Melloni sulla Repubblica di ieri) si scontra l’espressione “ogni misura di contenimento”? Se si riteneva necessaria una nuova legge ad hoc, non era meglio prevedere anche norme di raccordo con autorità di altri Stati e con l’Organizzazione mondiale della sanità, visto che il virus non conosce confini? Comunque, dopo il decreto legge, il presidente del Consiglio si è affrettato ad adottare due draconiani decreti, il 23 e il 25 febbraio, dettando disposizioni attuative.

 

Questo al centro. E le regioni?

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Le regioni vanno divise in due gruppi. Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia hanno operato d’accordo con il ministro della Salute, che ha emanato tre ordinanze d’intesa con ciascuna regione. Sardegna e Basilicata il 23 febbraio, Campania e Provincia autonoma di Trento il giorno successivo e Marche il 25 febbraio hanno adottato ordinanze di contenuto diverso, come se il virus fosse diverso e l’epidemia presentasse gradi diversi di pericolo.

 

Il governo dell’azione complessiva stava però nelle mani del potere centrale e della politica.

Questa ha dato pessima prova, per due motivi. Innanzitutto, il governo ha oscillato. Prima ha adottato provvedimenti molto severi, senza valutarne l’impatto economico. Dopo tre giorni, il 28 febbraio, resosi conto delle conseguenze della propria azione, è corso ai ripari con misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese. E’ ritornato sulle misure di divieto e di contenimento con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, firmato anche dal ministro della Salute, del 1° marzo: questo divide l’intera Italia in quattro zone, con misure diverse. Poi, politici o aspiranti politici in cerca di pubblicità hanno sfruttato in modo non disinteressato il palcoscenico mediatico, con scarso senso della misura e qualche punta di incontinenza verbale. Bisognava lasciare che parlassero l’Istituto superiore di sanità e il Consiglio superiore di sanità. Invece, il presidente del Consiglio dei ministri ha rubato loro la scena. All’opposizione, il leader della Lega non è stato da meno, proponendo un governo di unità nazionale, di breve durata, nel momento di massima disunione. Poi, resosi conto che nessuno lo ascoltava, ha alzato la posta: non stanziare 4 miliardi, ma “almeno 50”. I media hanno fatto il resto, fornendo il palcoscenico e enfatizzando la drammatizzazione in un pubblico giustamente preoccupato.

 

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Non ha parlato finora del Servizio sanitario nazionale.

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Che esce bene da questa prova difficile. Messo sotto pressione, ha saputo fronteggiare e risolvere le difficoltà, con molta dedizione da parte dei suoi addetti, a tutti i livelli. Qualche valutazione contraddittoria ha permesso di capire che anche i tecnici hanno diversi metri di interpretazione dei fatti. La buona risposta dell’attore principale, il Servizio sanitario nazionale, dimostra due conclusioni che da tempo sono condivise dagli esperti. La prima è che l’amministrazione opera meglio nei campi dove la sua azione non è troppo “legificata” perché la sovrabbondanza di leggi e controlli produce un effetto di blocco. La seconda è che l’amministrazione dà il meglio di sé quando si tratta di tamponare le emergenze, negli eventi straordinari (anche se, purtroppo, sa gestire molto meno la routine ordinaria).

 

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La valutazione complessiva?

Primo: unità e compattezza hanno retto poco. Secondo: è presto emersa la frattura storica centro-periferia e si è aggiunta l’assenza di coordinamento tra le regioni, ognuna delle quali, eccetto le tre del nord, è andata per vie diverse. Terzo: nel complesso, la rete ha funzionato meglio della piramide.

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