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Cosa (non) si è deciso al G20 di Osaka in materia di cambiamenti climatici

Rivista Energia

Le grandi potenze non intendono impegnarsi collegialmente. In Giappone è arrivato l’ennesimo passo falso

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Il G20 di Osaka ha attestato, semmai ve ne fosse stato bisogno, l’indisponibilità delle maggiori potenze (responsabili dell’80% delle emissioni di CO2) di impegnarsi collegialmente nella lotta ai cambiamenti climatici.

 

Quattro anni dopo l’Accordo di Parigi le contraddizioni – già evidenti dal progressivo peggioramento delle cose con i nuovi record delle emissioni e della loro concentrazione in atmosfera – sono venute al pettine smentendo i facili entusiasmi di chi l’aveva salutato come una ‘svolta storica’.

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Le avvisaglie si erano d’altronde già avvertite nei giorni precedenti il Summit, per le difficoltà ad elaborare un comunicato congiunto che superasse la formula 19+1 del precedente Summit di Buenos Aires: 19 paesi che condividono un testo finale + l’America che si dissocia esprimendo la propria posizione.

 


Tra 2013 e 2017 i G20 hanno triplicato i sussidi alle centrali a carbone (a 64 miliardi dollari)


  

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Anche ci si fossero riusciti, sarebbe stato comunque un comunicato grondante ipocrisia alla luce di quanto reso noto negli stessi giorni dall’Overseas Development Institute (ODI): tra il 2013 e il 2017 i G20 hanno triplicato i sussidi (a 64 miliardi dollari) alle centrali elettriche alimentate a carbone.

 

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E questo, nonostante il loro impegno di un decennio fa di eliminare i sussidi a tutte le fonti fossili. Cina, India, Giappone, Sud Africa, Corea del Sud, Indonesia, Stati Uniti sono nell’ordine i maggiori erogatori di maggiori sussidi.

 

Che credibilità possano mai avere nel declamare il ricorso ‘to a wide range of clean technologies’ o l’‘irreversibility’ dell’Accordo di Parigi? E, d’altra parte, non può dimenticarsi la COP24 del 2018 tenutasi a Katowice in Polonia, la seconda città più inquinata d’Europa, ove si inneggiò al’‘orgoglio nazionale’ a difesa del carbone non solo da parte della delegazione polacca.

  


I 19 paesi che hanno sottoscritto la Dichiarazione non hanno assunto alcun impegno concreto in materia di cambiamenti climatici


  

Nelle 21 righe del paragrafo 35 della Declaration finale di Osaka dedicate al ‘Climate Change’ (15° argomento tra quelli trattati), i 19 paesi che le hanno condivise non hanno assunto alcun impegno concreto su soluzioni che richiederebbero un approccio globale – si pensi ad esempio al tema della carbon tax – sottoscrivendo una sommatoria di affermazioni generiche, se non banali.

 

Ben più nette e sincere – condivisibili o meno che siano – le 10 righe che sintetizzano la posizione americana: dopo aver riaffermato l’intenzione di ritirarsi dall’Accordo di Parigi, gli Stati Uniti si dicono orientati “to promote economic growth, energy security and access, and environmental protection (…) while reducing emissions”. Sì, perché i tanto vituperati Stati Uniti hanno ridotto percentualmente le loro emissioni nel decennio 2007-2017 poco meno dell’Unione Europea (1,4% vs 1,9% medio annuo) e molto più di quanto abbiano fatto paesi ‘virtuosi’ che si ammantano di green come Olanda, Norvegia, Germania, Austria, Belgio, Portogallo.

 


Senza cooperazione non v’è soluzione ai cambiamenti climatici, eppure diversi paesi si vanno avvicinando alle posizioni americane


 

Osaka, inutile negarlo, è stato l’ennesimo passo falso in quel cammino di cooperazione internazionale che ci si illudeva fosse stato avviato nel dicembre 2015 con l’Accordo di Parigi. E senza cooperazione non vi è soluzione. Non solo, il testo della Declaration finale segna passi indietro rispetto ai passati Summit, essendo state omesse dopo lunghi negoziati le espressioni ‘global warming’ e ‘decarbonisation’ perché non condivise da diversi paesi (tra cui sembra lo stesso Giappone) che si vanno avvicinando alle posizioni americane.

 

Tenendo conto che sono in gioco i destini del Pianeta, le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo, la ricacciata nella povertà di centinaia di milioni di persone, si può ben dire che ad Osaka è andata in scena la peggior tragicommedia sul futuro del mondo che si potesse immaginare.

 

Che i media non ne abbiano fatto cenno – presi come sono a magnificare le virtù salvifiche dell’auto elettrica o dell’economia circolare – o che esponenti del mondo politico o scientifico che ha fatto del clima la propria professione (e fortuna) non abbia condannato quel che è avvenuto in Giappone ne è un’ulteriore conferma.    

 

L'articolo è di Alberto Clô, Direttore Responsabile della Rivista Energia, ed è stato pubblicato originariamente su www.rivistaenergia.it 

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