Anche il culto di Guerre Stellari vive il dramma del cambio generazionale

    Roma. Qualche anno fa Cass Sunstein, l'accademico più citato del mondo, noto anche per la sua capacità di scrivere un libro in mezza giornata – ora più, ora meno – ha partorito un volume in cui spiegava il mondo attraverso Guerre Stellari. Dalla teoria dell'evoluzione alla primavera araba e all'omicidio Kennedy, tutto analizzato e classificato in termini di forza e guerrieri Jedi, di Obi-Wan Kenobi e Han Solo. A parte la concessione al genere saggistico “il mondo spiegato con”, di comprovato successo commerciale se l'autore ha le credenziali giuste, Sunstein era convinto dell'assoluta unicità di Guerre Stellari come fenomeno di massa, un'epica destinata a sopravvivere nella tempesta di meteore dello storytelling fantascientifico. Guerre Stellari resiste al cambiare delle mode, diceva, perché “è bipartisan e arci-americano” e “unisce le persone”. E' una categoria universale e perciò nasce già consegnata all'immortalità. L'idea che la saga unisce fazioni, scioglie conflitti e salda generazioni lo ha portato fino a spiegare anche l'avvento di Martin Luther King secondo la stessa logica fantascientifica: “Era un ribelle, certamente uno Skywalker, con un pizzico di Han e più di un pizzico di Obi-Wan. Ha perseguito il cambiamento radicale, ma conosceva bene il potere del legame intergenerazionale”.

    Ecco, proprio nel legame intergenerazionale starwarsiano qualcosa si è inceppato. L'eccezionalismo della saga, che prometteva di trasmettersi senza intoppi da qui alla fine dei tempi, sta vivendo una fase di inaridimento. Che è un altro modo per dire che i ragazzini irrorati di Marvel e Fortnite se ne sbattono di Luke e Darth Vader, fermo restando la riverenza dovuta al culto dei padri e dei nonni. Crayton Harrison lo ha spiegato con sapienza numerica anglosassone in un rigorosa analisi su Bloomberg, innescata dai pessimi risultati di pubblico nel nuovo parco tematico all'interno di Disneyland Park, in California. I vertici della Disney erano talmente certi del successo dell'operazione che hanno ideato un complicato sistema di prenotazioni online per evitare gli ingorghi, le risse, le scene di panico collettivo. La calca non c'è stata, e il sistema di prenotazioni è rimasto inutilizzato. Cercando forse di buttarla sul ridere, il ceo di Disney, Bob Iger, ha provato con il genere paradossale: la gente non si è presentata perché tutti temevano che fosse troppo affollato. Come dire: così tanti viaggiatori hanno scelto la partenza intelligente, che alla fine è diventata una partenza stupida.

    Sotto le giustificazioni di Iger c'è un pattern di disaffezione generazionale verso Guerre Stellari. Il primo episodio dell'ultima trilogia, uscito nel 2015, è andato bene, ma il secondo non ha retto l'urto del botteghino e lo spinoff su Han Solo è stato un fallimento. “The Rise of Skywalker”, in uscita a dicembre, arriva sotto auspici negativi, ulteriormente peggiorati da un trend declinante di vendita dei giocattoli tematici, che sono parte del core business. Quando Disney ha comprato la Lucasfilm, nel 2012 (prezzo: 4 miliardi e rotti di dollari), la strategia era quella di massimizzare la monetizzazione di una complicata rete di prodotti cinematografici da espandere e potenziare, e del resto la storia aveva consegnato ai produttori almeno un paio di generazioni di devoti della saga, con tanto di sottoculture e fascinazioni ossessive ritagliate attorno agli ultimi tra i personaggi minori. Lo spazio di mercato sembrava come la lotta al lato oscuro della forza, una faccenda eterna e mai davvero chiusa, in grado di illuminare anche i nipoti dei testimoni degli esordi di George Lucas, fatto certificato perfino da Sunstein. Nemmeno il “nudge”, la spintarella paternalista dell'inventore del genere, ha placato i sintomi dell'affaticamento da eccesso di Guerre Stellari, ché il travaso di un culto fra le generazioni non è faccenda che si può orientare nemmeno con la più oculata delle strategie di investimento.

    Mattia Ferraresi