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un foglio internazionale

"Il neofemminismo sbaglia a voler aggirare le vie della giustizia”

Liliane Kandel, madrina del femminismo francese e amica di Simone de Beauvoir, non si riconosce negli antagonismi di oggi, scrive Franc-Tireur (29/12)

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Franc-Tireur – Lei è stata, ed è ancora, una figura importante del femminismo. Ha scritto per dieci anni su Les Temps modernes, ha militato nel Mouvement de libération des femmes (Mlf) e lavorato sulla questione del sessismo ordinario con Simone de Beauvoir. Sono grandi lotte, che richiedono molto coraggio. Ce ne vuole altrettanto oggi per difendere la causa delle donne?

Liliane Kandel – Anzitutto, per noi, non è mai stata una questione di coraggio. Gli anni di militanza nel Mlf, che erano la prosecuzione del maggio ’68, sono stati assolutamente meravigliosi. L’unico momento in cui ci siamo dette che probabilmente stavamo correndo dei rischi è in occasione del manifesto delle 343 (“puttane”, grazie Charlie). Non sapevamo realmente come avrebbe potuto reagire il potere. E’ tra l’altro una delle ragioni per cui molte donne famose hanno firmato. Era difficile coinvolgere Simone de Beauvoir, Christiane Rochefort o Delphine Seyrig… Erano molto numerose. Ma ho delle amiche che all’epoca erano insegnanti e non hanno voluto assumersi il rischio di firmare. Per il resto, tutte le campagne che abbiamo fatto erano dei momenti di piacere sempre nuovi. Ciò non ha nulla a che vedere con il coraggio. In realtà, le cose si imponevano a noi in maniera scontata…

Cosa significa per lei l’espressione “neofemminismo”? Non è uno snaturamento del femminismo a cui le hai partecipato? O in fin dei conti le differenze e gli antagonismi sono sempre esistiti, nella sua epoca come oggi?

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Assolutamente. La storia del Mlf è quella di una lunga guerra teorica, ma non solo, tra le femministe che si definivano rivoluzionarie e le femministe radicali che chiamavamo “universaliste”, ed erano, in sostanza, sulla linea di de Beauvoir. C’era anche un altro gruppo battezzato “psicanalisi e politica”, il quale era fortemente – e volontariamente, peraltro – differenzialista, e pensava che la liberazione delle donne consistesse essenzialmente nel fare in modo che esse ritrovassero il proprio genio. Un genio che collocavano nell’utero – non scherzo – il “genio uterino”, ossia il fatto di dare alla luce dei bambini. Queste femministe non erano affatto le sole, tra l’altro, a tenere questo discorso. C’erano anche dei gruppi di donne artiste che ritenevano necessario trovare una “scrittura femminile”, diverse dalla scrittura degli uomini. Michelle Perrot ha spiegato in maniera molto chiara che in tutti i movimenti di liberazione femministi, da duecento anni a questa parte, ci sono stati un polo universalista e un polo differenzialista. Il problema del Mlf è che oltre a essere differenzialista, era essenzialmente imperialista, ricchissimo peraltro, e ha condotto una vera e propria guerra di distruzione contro gli altri, non fosse altro che appropriandosi del nome Mlf, facendo di un movimento di liberazione delle donne un marchio commerciale. I conflitti, ora, sono diversi.

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Oggi, esistono anche delle femministe identitarie. Qual è il suo pensiero a questo proposito?

Penso che con le femministe differenzialiste avevamo in comune il fatto di situarci all’interno dello stato di diritto. Ho passato due anni della mia vita a parlare soltanto di stupro, a scrivere sullo stupro, a intervistare delle donne stuprate. Un’amica è andata a intervistare degli stupratori. Ma non abbiamo mai diffuso pubblicamente un nome, o ad ogni modo non prima che fosse stata sporta una denuncia. Ciò che mi infastidisce profondamente di quello che lei chiama neofemminismo, e non so nemmeno se si può definire femminismo, è il suo modo di aggirare la giustizia. Le femministe non hanno inventato Facebook, non hanno inventato i social network, ma li utilizzano per creare un bad buzz che può distruggere totalmente e definitivamente la reputazione di una persona. Poco importa che sia meritato o no, semplicemente non si può aggirare la giustizia, dire no alla presunzione d’innocenza, no ai diritti della difesa, no alla proporzionalità delle pene. 

Fino a pochi anni fa, nessuno vedeva ancora i pericoli del wokismo. Oggi si parla di “cancel culture”. Qual è il suo sguardo su questa importazione che sconvolge i nostri dibattiti? 

E’ una censura. Quando una pièce di Sofocle viene vietata alla Sorbona perché, si dice, ci sarebbe un “blackface” fra gli attori, si tratta in maniera pura e semplice di censura. E’ vero, in Francia non ci siamo ancora dentro completamente, ma ci stiamo arrivando. In Canada, si bruciano i libri per bambini e si mettono all’indice le opere! Ho letto alcuni articoli aberranti all’interno dei quali si spiegava che una poesia di Ronsard era un incitamento allo stupro. Bisogna fare molta attenzione, perché la sensazione è che la nuova generazione di studenti non noti più la differenza tra uno scritto e un atto. Le parole non mordono. Trovandosi in questo pendio di ipersensibilità, di risveglio woke, ci stiamo avvicinando a qualcosa che assomiglia alla cultura della cancellazione. Lo si nota non solo nelle università, ma anche nei milieux della cultura, è terribile. Tuttavia, constato che, per mesi, si è provato ad allertare i media e nessuno ne parlava. Ora, invece, è diverso… Ma voglio dire anche che “il capo cancellatore”, oggi, è il tipo che dice che Pétain ha salvato gli ebrei (Éric Zemmour, candidato indipendente della destra identitaria alle presidenziali del 2022, ndr), e non la giovane studentessa che pensa che Ronsard abbia incitato allo stupro.

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