PUBBLICITÁ

il foglio arte

L’intelligenza artificiale impara l’arte e ne crea una tutta nuova

Nicola Baroni*

Da Mario Klingemann ad Anna Ridler: opere e sperimentazioni con le Generative Adversarial Networks. Un libro di Alice Barale

PUBBLICITÁ

Se ascoltate qualcuno suonare il pianoforte, vi chiedereste mai se l’artista è il pianoforte? Solo perché il meccanismo è più complicato non vuol dire che i ruoli cambino”, cercava di spiegare l’artista tedesco Mario Klingemann a inizio 2019 presentando la sua opera Memories of Passersby I, una serie infinita di ritratti di persone inesistenti creati in tempo reale da un’intelligenza artificiale. La casa d’aste Sotheby’s l’avrebbe venduta a 40 mila sterline. Non era la prima volta che veniva battuta un’opera creata con l’AI: nell’ottobre dell’anno precedente il Ritratto di Edmond de Belamy, creato dal collettivo francese Obvious con un algoritmo preso gratuitamente in rete, era stato venduto da Christie’s per 432 mila dollari. I media generalisti derubricarono le notizie alla sezione tecnologie, critica d’arte e pubblico le snobbarono come provocazioni estemporanee. “Ma siamo sicuri di non essere di fronte a una svolta epocale nel mondo dell’arte, analoga a quella introdotta con la nascita della fotografia?”, si chiede a due anni di distanza Alice Barale, ricercatrice di Estetica che collabora con l’Università Statale di Milano, curatrice dell’antologia Arte e intelligenza artificiale. Be my Gan (Jaca Book). Il volume, a cui hanno contribuito critici e artisti internazionali, è la prima pubblicazione italiana sull’argomento. 
Innanzitutto, chiarezza sui termini: cos’è l’arte creata con l’intelligenza artificiale? “Una cosa è parlare di computer o digital art, in cui software e hardware sono un mezzo per l’artista, come la spatola robotica di Can’t help myself dei cinesi Sun Yuan & Peng Yu o le opere realizzate da David Hockney su tablet con l’app Brushes”, spiega Barale. “Nell’arte creata con l’AI deve esserci almeno una fase della creazione che sfugge alla volontà dell’artista ed è completamente delegata all’intelligenza artificiale”. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Se ascoltate qualcuno suonare il pianoforte, vi chiedereste mai se l’artista è il pianoforte? Solo perché il meccanismo è più complicato non vuol dire che i ruoli cambino”, cercava di spiegare l’artista tedesco Mario Klingemann a inizio 2019 presentando la sua opera Memories of Passersby I, una serie infinita di ritratti di persone inesistenti creati in tempo reale da un’intelligenza artificiale. La casa d’aste Sotheby’s l’avrebbe venduta a 40 mila sterline. Non era la prima volta che veniva battuta un’opera creata con l’AI: nell’ottobre dell’anno precedente il Ritratto di Edmond de Belamy, creato dal collettivo francese Obvious con un algoritmo preso gratuitamente in rete, era stato venduto da Christie’s per 432 mila dollari. I media generalisti derubricarono le notizie alla sezione tecnologie, critica d’arte e pubblico le snobbarono come provocazioni estemporanee. “Ma siamo sicuri di non essere di fronte a una svolta epocale nel mondo dell’arte, analoga a quella introdotta con la nascita della fotografia?”, si chiede a due anni di distanza Alice Barale, ricercatrice di Estetica che collabora con l’Università Statale di Milano, curatrice dell’antologia Arte e intelligenza artificiale. Be my Gan (Jaca Book). Il volume, a cui hanno contribuito critici e artisti internazionali, è la prima pubblicazione italiana sull’argomento. 
Innanzitutto, chiarezza sui termini: cos’è l’arte creata con l’intelligenza artificiale? “Una cosa è parlare di computer o digital art, in cui software e hardware sono un mezzo per l’artista, come la spatola robotica di Can’t help myself dei cinesi Sun Yuan & Peng Yu o le opere realizzate da David Hockney su tablet con l’app Brushes”, spiega Barale. “Nell’arte creata con l’AI deve esserci almeno una fase della creazione che sfugge alla volontà dell’artista ed è completamente delegata all’intelligenza artificiale”. 

PUBBLICITÁ

 
Alla base di tutte le opere prese in esame nel volume ci sono le Gan, Generative Adversarial Networks, le reti generative avversarie inventate nel 2014 da Ian Goodfellow: perché sono escluse altre forme di AI? “Le Gan sono particolarmente ‘creative’, soprattutto nel campo delle immagini. Esse sono formate da due reti neurali che si ‘allenano’ a vicenda. La prima, discriminator, viene istruita a partire da una serie di dati (immagini, testi o suoni). L’altra, generator, produce una nuova serie di dati senza aver accesso a quelli forniti alla prima. Ciò che crea deve essere abbastanza simile a essi, in modo che il discriminator li confonda. Le due reti imparano così l’una dall’altra e creano nuovi dati indipendenti da quelli di partenza”. 
E’ quello che Klingemann ha fatto con Memories of Passersby I: ha addestrato le Gan con migliaia di ritratti realizzati tra il Sei e l’Ottocento e ha creato un’applicazione simile a Tinder per insegnare alla macchina le sue preferenze estetiche. Poi ha lasciato che le Gan creassero la loro sequenza infinita, non combinando le immagini esistenti ma producendone di completamente nuove. Per ora, il risultato non sono immagini precise ma distorte, nebulose e deformate, che ricordano la pittura di Francis Bacon.

 
Se da un lato questa sperimentazione è stata consacrata da apparati del sistema dell’arte che più tradizionali non si potrebbero – le case d’asta – dall’altro è curioso osservare le argomentazioni con cui si è subito espresso il fastidio di critica e pubblico. “Ci si è domandati chi fosse il genio creativo, l’artista, quale fosse l’opera: concetti già messi in discussione nel Novecento”, sottolinea Barale. “A dimostrazione di quanto l’idea diffusa di arte, anche in sede critica, sia ancora molto legata alla concezione preavanguardistica. E’ la solita questione: questa novità propone in un modo più radicale tendenze precedenti o introduce questioni totalmente nuove? Penso la riposta sia la prima”. 

 
La stessa perdita di controllo dell’artista nella fase creativa, possibile grazie al contributo degli algoritmi, sembra realizzare il sogno di surrealisti ed espressionisti astratti. Klingemann non a caso parla di “bellezza convulsiva”, citando André Breton.  Qual è quindi la vera discontinuità che l’AI introduce nell’arte? “Credo che la novità stia nel processo conoscitivo e di creazione dell’opera da parte dell’AI, che deve ‘imparare a vedere’, identificare le diverse forme, suoni, dati percettivi che le offriamo”, spiega Barale. “L’AI introduce nel processo creativo un’alterità, parzialmente autonoma, con una sua logica e una sua percezione. Questo spinge artista e pubblico a tornare a una visione in cui il mondo deve ancora formarsi, che è una caratteristica fondamentale dell’arte, pensiamo alla Montagna di Cezanne: tornare a uno stadio percettivo anteriore a quello che ci siamo costruiti con l’esperienza, e questo nella AI art avviene ascoltando un’altra soggettività, come un’altra lingua. L’artista ha a che fare con un quasi-vivo che potremmo paragonare a un animale domestico, che è condizionato dai nostri spazi, dalle immagini che vede in casa nostra, ma ha una sua autonomia insondabile. Del resto, Aby Warburg scriveva che nel momento in cui l’uomo afferra una zappa è già ‘fuori’ di sé. La tecnica è questo: aver sempre a che fare con qualcosa che succede ai confini con quello che classicamente si può intendere come umano”.

PUBBLICITÁ

 
Nell’ultimo lavoro di Klingemann, Appropriate Response (2020), lo spettatore, posizionandosi su un inginocchiatoio in legno, attiva un teleindicatore a palette, analogo a quello delle stazioni ferroviarie, su cui compare una frase creata dall’AI. Per esempio: “La miglior cosa che posso fare è alzarmi dal letto ogni anno”. Ancora una volta, simile all’opera interattiva delle avanguardie, ma un passo oltre: “In quel caso l’opera non era finita e si trasformava nel rapporto con il pubblico. Qui è la stessa realtà rappresentata che non esiste prima della relazione con la macchina. Come se non ci fosse realtà prima della relazione (che sia quella con l’IA o con l’altro che incontriamo continuamente nella nostra percezione del mondo)”.

 
Nel loro processo di apprendimento e creazione, le Gan fanno anche errori. “Alcuni di questi errori sono indotti dagli artisti. Memo Akten nel 2019 al Barbican Centre di Londra ha chiamato gli spettatori a mostrare alcuni oggetti artificiali a Gan che erano state istruite solo con immagini di elementi naturali. Altri errori sono una rivelazione per l’artista stesso. Anna Ridler, nel suo Fall The House of Usher, ha disegnato a china 200 immagini tratte dall’omonimo film e le ha date in pasto alla Gan, spingendola a creare scene analoghe a quei disegni. I risultati hanno reso l’artista consapevole di errori e peculiarità della sua stessa conoscenza percettiva: per esempio sopracciglia e occhi, che aveva disegnato in modo simile, si confondevano”. 

 
“Non mi interessa tentare di insegnare a una macchina a disegnare come un essere umano”, ha scritto Ridler, “[ma] partire da qualcosa di freddo, sterile, algoritmico e reintrodurvi l’elemento umano”. Il paradosso è proprio che la collaborazione tra artisti e AI non ha prodotto patinate e futuribili estetiche digitali ma risultati vicini al biologico, alla natura, al confine tra umano e non umano. Se con le avanguardie l’opera d’arte organica veniva scomposta nell’oggetto inanimato e nel frammento, qui succede l’opposto: “E’ come se questi frammenti inanimati si animassero, perché dentro si scorge un’intenzionalità diversa dalla nostra. Dal frammento si origina qualcosa di quasi-umano”. 

 
Quello che l’AI sta facendo in campo artistico, insomma, non è creare opere d’arte seriali e sempre diverse, replicare uno stile, o assemblare contenuti e stili anacronistici, per esempio mostrandoci come Van Gogh avrebbe dipinto un’automobile (operazioni tutte realizzabili con semplici strumenti digitali, senza che entri in gioco l’AI). “L’intelligenza artificiale è piuttosto un’alterità che apprende senza interpretare, vede senza comprendere, percepisce senza disporre di un corpo, e sulla base di tutto questo crea e dialoga con l’interlocutore umano”. 
A ben vedere, più che un pericoloso Moloch nella storia dell’arte, il miraggio di ogni artista.

*Nicola Baroni scrive di cultura e società, vive a Milano

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ