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Il Foglio arte

Liberiamo lo spazio dal vincolo della funzione

Umberto Napolitano*

Dal punto di vista dell’architettura, la crisi sanitaria ha un impatto profondo sulla disciplina, evidenziando l’assurdità della standardizzazione dei prodotti immobiliari

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L’anno 2020 porta con sé incertezze, sconvolgimenti e interrogativi che ben rappresentano il clima di quest’inizio secolo. Dal punto di vista dell’architettura, la crisi sanitaria ha un impatto profondo sulla disciplina. Ben oltre le risposte immediate e le ripercussioni pratiche, sorge un interrogativo fondamentale: se la categoria del tipo funzionalista sembra tramontare definitivamente, come pensare lo spazio in divenire? Come pensare spazi capaci di accogliere l’imprevedibile, l’indeterminato e il paradossale che contraddistinguono la nostra epoca? Quatremère de Quincy formulò la nozione di tipo a partire da un’idea semplice: ogni architettura deve rispondere a un principio elementare. Per i teorici dell’epoca, il tipo non doveva fornire un modello da imitare ma stabilire una regola, un’idea fondatrice e primaria a partire dalla quale l’oggetto architettonico avrebbe potuto declinarsi in infinite variazioni. Le definizioni di tipo e gli ambiti d’applicazione del discorso tipologico – che consiste nello studio e nella classificazione dei tipi – si sono evoluti e adattati, nel corso del tempo, in funzione delle priorità e delle aspettative sociali.

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L’anno 2020 porta con sé incertezze, sconvolgimenti e interrogativi che ben rappresentano il clima di quest’inizio secolo. Dal punto di vista dell’architettura, la crisi sanitaria ha un impatto profondo sulla disciplina. Ben oltre le risposte immediate e le ripercussioni pratiche, sorge un interrogativo fondamentale: se la categoria del tipo funzionalista sembra tramontare definitivamente, come pensare lo spazio in divenire? Come pensare spazi capaci di accogliere l’imprevedibile, l’indeterminato e il paradossale che contraddistinguono la nostra epoca? Quatremère de Quincy formulò la nozione di tipo a partire da un’idea semplice: ogni architettura deve rispondere a un principio elementare. Per i teorici dell’epoca, il tipo non doveva fornire un modello da imitare ma stabilire una regola, un’idea fondatrice e primaria a partire dalla quale l’oggetto architettonico avrebbe potuto declinarsi in infinite variazioni. Le definizioni di tipo e gli ambiti d’applicazione del discorso tipologico – che consiste nello studio e nella classificazione dei tipi – si sono evoluti e adattati, nel corso del tempo, in funzione delle priorità e delle aspettative sociali.

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All’inizio del Diciannovesimo secolo Jean-Louis Durand pubblicava la raccolta, in due volumi, delle sue lezioni all’école Polytechnique, intitolata Précis d’Architecture. Pur non menzionando esplicitamente la nozione di tipo ma insistendo sulla riproducibilità degli esempi, Durand sottolineava il concetto di uno schema tipologico ideale, preesistente all’oggetto architettonico. Il suo insegnamento inaugura una visione razionale della disciplina e stabilisce una prima relazione tra tipo architettonico e diagramma funzionale. Poco più tardi, il celebre slogan di Louis Sullivan, Form follows function, ne confermava la tendenza sul continente americano. All’inizio del Ventesimo secolo, in Europa, Walter Gropius, Adolf Behne et il Bauhaus, abbracciando la corrente di pensiero nota come Nuova Oggettività, teorizzarono il funzionalismo in architettura. Partendo dall’idea dell’existenzminimum, la cui ambizione risiedeva nella razionalizzazione dei processi costruttivi attraverso la normalizzazione delle condizioni materiali minime di vita, l’architettura razionalista operò l’asservimento del tipo alla funzione. In tal senso, la tipologia può considerarsi uno strumento moderno.

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Sebbene il controllo delle esistenze umane non rientri negli scopi dell’architettura, è nota la sua capacità di indurre dei comportamenti. La supposta abilità del progettista nel determinare le condizioni di vita è alla base del determinismo architettonico e, da sempre, ingaggia la disciplina in un processo deduttivo di composizione dello spazio. Ne risulta una chiusura disciplinare, la stessa sui cui verteva la critica mossa al funzionalismo in occasione del CIAM 9 tenutosi ad Aix-en-Provence nel 1953. Benché criticato, il funzionalismo, o utilitarismo, domina ancora i sistemi produttivi. La forza deterministica di questi ultimi sembra persino rinvigorita dai nuovi imperativi d’efficienza ecologica che si sovrappongono al dogma della razionalità funzionale. L’imposizione di standard tecnici, energetici, ambientali e il ricorso a nuovi dispositivi e nuove norme, non fanno che replicare una logica di ottimizzazione. L’attuale crisi sanitaria, il lockdown che abbiamo vissuto e che probabilmente rivivremo, hanno evidenziato l’assurdità della standardizzazione dei prodotti immobiliari. Quanti bagni si sono trasformati in sale di video conferenza? Quanti soggiorni in sezioni distaccate delle scuole elementari? Quanti open space vuoti e inutili?

 

Questo secolo d’incertezza rimette in discussione il ruolo dell’architettura. Simbolo di stabilità e permanenza, l’arte del costruire deve ormai confrontarsi con un futuro imprevedibile. Ignorare questo paradosso la condurrebbe inesorabilmente verso l’instabilità e l’obsolescenza. Agli architetti rimane la possibilità di orientare l’architettura verso un orizzonte a-tipologico, passando dal determinismo del progetto al progetto evolutivo e indeterminato. Il senso contemporaneo della ricerca a-tipologica risiede nella liberazione dello spazio dal vincolo della funzione. Un’architettura dell’alterità che generi spazi indeterminati dal punto di vista funzionale ma aperti all’imprevisto. Quest’architettura riuscirebbe a liberare il potenziale intrinseco dello spazio. Da sempre, gli spazi hanno la capacità di mostrarci, attraverso le loro qualità fisiche e materiali, come utilizzarli. Aperti, chiusi, amovibili o fissi, freddi, caldi, umidi, secchi, luminosi o bui, durevoli o effimeri… ciascuna situazione ci invita diversamente all’azione. Spazi di ogni specie, capaci di determinare altrettante condizioni che contribuiscono a rendere accoglienti i nostri luoghi di vita. Queste qualità preziose, in netto contrasto con la genericità dei metodi di progettazione e dei processi di costruzione contemporanei, descrivono un mondo di variazioni molteplici e connesse.

 

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La riuscita delle trasformazioni, che il nostro secolo ci impone, dipende anche dalla capacità dell’architettura di preservare la diversità spaziale. Lo spazio architettonico moderno è stato spesso descritto attraverso un’immagine di coerenza tra contenente e contenuto. Lo spazio contemporaneo riflette un paradosso ben diverso: la parte e il tutto. Peter Sloterdijk utilizza per descriverlo la metafora delle schiume: ammassi di bolle d’aria, densi e leggeri, la cui fragilità focalizza l’attenzione sull’involucro e sulla sua natura di limite. Pensare l’indeterminato vuol dire pensare in termini di spazio molteplice e continuo, fragile nella sua vulnerabilità agli eventi del mondo, siano essi fisici, psichici, sociali o culturali. Per quanto controllabile, lo spazio contemporaneo è costantemente deformato, trasformato da ciò che lo attraversa. Il cambiamento risiede in questa sensibilità, o porosità, ai fenomeni – climatici, politici, economici, sociali… L’immagine dell’involucro, metafora del contatto tra l’architettura e il suo contesto, prevale sul dogma dell’organizzazione funzionale della pianta. L’orizzonte a-tipologico segna anche la fine di una visione antropocentrica, persino androcentrica, o semplicemente dominante, dello spazio e inaugura l’apertura fenomeni finora considerati marginali.

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Plasmato da nuove coesistenze – multiculturale, multi specie, multi genere… – lo spazio contemporaneo è chiamato a confrontarsi con contesti in mutazione permanente. Determinata dal contesto ma libera nelle molteplicità delle ibridazioni possibili, l’architettura a-tipologica diventa interfaccia della complessità del reale e apre la disciplina a nuove forme di localismo.

 

*Umberto Napolitano con il Laboratorio RAAR LAN Architecture, Parigi

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