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Il Foglio Arte

William Kentridge, disegnare il presente con la materia delle ombre

Carolyn Christov-Bakargiev

La natura delle emozioni e della memoria, il rapporto tra desiderio, etica e responsabilità. Una conversazione con l'artista sudafricano

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Tra i principali artisti internazionali di oggi, William Kentridge vede la sua arte radicata a Johannesburg, in Sudafrica, dove è nato nel 1955 e continua a vivere e lavorare. Sebbene la sua ricerca abbia abbracciato vari ambiti, la sua attività principale rimane il disegno e talvolta concepisce i suoi film, installazioni, sculture, teatro, conferenze e performance come estensioni di disegni. Questi lavori nascono da un tentativo di affrontare la natura delle emozioni e della memoria, nonché il rapporto tra desiderio, etica e responsabilità. La sua arte elegiaca esplora le possibilità della poesia nella società contemporanea e fornisce un pungente commento satirico su quella società. Quello che segue è un collage delle nostre recenti conversazioni.

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Tra i principali artisti internazionali di oggi, William Kentridge vede la sua arte radicata a Johannesburg, in Sudafrica, dove è nato nel 1955 e continua a vivere e lavorare. Sebbene la sua ricerca abbia abbracciato vari ambiti, la sua attività principale rimane il disegno e talvolta concepisce i suoi film, installazioni, sculture, teatro, conferenze e performance come estensioni di disegni. Questi lavori nascono da un tentativo di affrontare la natura delle emozioni e della memoria, nonché il rapporto tra desiderio, etica e responsabilità. La sua arte elegiaca esplora le possibilità della poesia nella società contemporanea e fornisce un pungente commento satirico su quella società. Quello che segue è un collage delle nostre recenti conversazioni.

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Carolyn Christov-Bakargiev: La tua è un’arte basata sul processo, cambiamento, transizione, cancellazione e ridisegno. È un’arte di zone grigie piuttosto che certezza e fatti. Spesso lavori attraverso una forma di spostamento. Il disegno non è l’obiettivo del lavoro finale, perché è fatto per creare un film, ma allo stesso tempo il film è fatto per documentare il processo di realizzazione del disegno. Quindi ogni elemento punta a un’altra cosa, spostando la certezza degli spettatori. Usi anche le ombre, anziché le cose stesse, come nella mostra Breathe in corso ad Alba.

 

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Ho descritto la tua arte come un matrixial, un concetto coniato da Bracha Ettinger e la prima confutazione dell’idea di Freud che la nascita è un trauma. Ettinger ha detto che dal momento che Freud non aveva mai partorito, non è riuscito a capire che la nascita è un’area grigia di transizione che comprende la gravidanza di una non ancora madre e il tempo di un non ancora bambino, anche dopo il parto. Ci è voluta una psicoanalista donna per concepire questa idea della zona grigia, della transizione.

 

William Kentridge: In quanto sudafricano bianco, il mio lavoro deriva dal mio rapporto con la colpa, la responsabilità, la storia, la connessione personale. Ma quello che dici sul displacement, lo spostamento, credo evidenzi il fatto che affronto indirettamente le domande sul mondo trasformandole in domande su ciò che si fa in studio. Il lavoro in studio può mostrarci cosa c’è fuori dallo studio.

 

CCB: Tutto quello che fai come artista riguarda sempre i nostri tempi, ma ancora una volta lo fai in modo obliquo, attraverso un tema che spesso è geograficamente e storicamente distante da noi. Recentemente hai esposto Waiting for the Sybil and Other Stories alla galleria Lia Rumma a Milano. In mostra anche agli Arsenali di Amalfi, si ispira alla figura mitologica della Sibilla, un’antica profetessa. Parli della Sibilla per affrontare i nostri tempi – la società algoritmica – la volontà di determinare il futuro delle persone attraverso formule matematiche o predizioni, intelligenza artificiale applicata ai social media e cloud. La tua attenzione è su ciò che potrebbe essere perso nella seguente equazione: quando il computer sa meglio di me ciò che mi piace o voglio, cosa succede al sé, all’io?

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WK: È scioccante quando sa più di noi su noi stessi, quando ciò che supponiamo sia una nostra libera scelta è stato effettivamente previsto da uno stupido algoritmo. Sì, ci sono cose che possiamo fare meglio grazie al computing, ma è disastroso se la tua vita è controllata e manipolata da un algoritmo a cui non hai accesso e nemmeno i suoi creatori possono comprendere appieno perché impara e cambia da solo. Tutti vogliono credere nel caso nella vita, quindi l’algoritmo diventa una specie di nemico. Il problema è che cediamo volentieri la nostra autonomia. Non è come se dovessero spremerci per ottenere informazioni da noi!

 

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CCB: E ora, essendo stati costretti al lockdown, stiamo attraversando un’altra forma di disponibilità a rinunciare alla nostra libertà di scelta: la scelta, ad esempio, di ucciderci per via di una malattia.

 

WK: Non esiste una buona soluzione. È meglio capire che ci sono soluzioni “meno cattive” e ci sono più approcci. “Per una volta cerchiamo di non avere ragione” è una frase del manifesto Dada di Tristan Tzara. Pensa ai tempi in cui scrisse questo, durante la Prima guerra mondiale, alla certezza di tutti su cosa fosse giusto fare, alla certezza dei politici che portò invece a una calamità totale. Se è questo che significa avere ragione, allora proviamo a non avere ragione.

 

CCB: Durante il nostro attuale cambiamento paradigmatico di valori, ci sono molte persone che cercano di avere ragione. Rimuovere le statue pubbliche, per esempio.

 

WK: Il Sudafrica ha aperto la strada a queste domande su come trattare i cimeli storici che sono monumenti a politiche terribili. Cinque anni fa, abbiamo organizzato la campagna “Rhodes Must Fall” guidata da studenti universitari di Cape Town per rimuovere un monumento del colonialista Cecil Rhodes. A Londra, per proteggere la statua di Winston Churchill, è stata inscatolata con del legno. Per me, quell’inscatolamento è di per sé una nuova bellissima scultura sul problema. Prima avevi una grande figura di bronzo in cima a un piedistallo di granito e ora hai un enorme piedistallo di legno senza niente in cima.

 

E questo ci fa provare a ricordare quale fosse la statua che si trova all’interno, attivando la memoria delle persone. Solleva anche la questione del perché è stata inscatolata. Quindi crea un dibattito. Per alcune persone in Gran Bretagna, Churchill è il grande eroe che ha salvato l’Occidente nella Seconda guerra mondiale; per molti in India è responsabile della carestia nel Bengala che ha ucciso tre milioni di persone, praticamente la metà delle vittime dell’Olocausto. E questa posizione indeterminata è resa chiara da questa scultura invisibile in una scatola di legno. Penso che sia necessario trovare molte soluzioni provvisorie analoghe a questa.

 

 

CCB: Durante la mia DOCUMENTA (13) del 2012, a cui hai preso parte, sia a Kassel sia a Kabul, una delle grandi domande che volevo discutere attraverso le opere degli artisti era la distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani nel marzo 2001. Possiamo dire che i talebani hanno sbagliato a distruggere i Buddha, ma allo stesso tempo non possiamo dire oggi negli Stati Uniti di non essere d’accordo a smantellare statue qui per ragioni politiche e ideologiche. Anche i talebani avevano le loro ragioni religiose e politiche, anche se non condividiamo i loro valori. Ma penso che il fatto che lo abbiano fatto sia stato un segno di una rinnovata importanza degli artefatti fisici nella nostra era mediata e digitale, un ritorno all’aura dell’opera d’arte fisica incarnata. L’arte nella sua fisicità sta riacquistando il tipo di potere e di azione politica che non aveva da prima dell’ascesa della borghesia, che l’ha trasformata in un bene commerciabile.

 

WK: Ma ora, con il lockdown e con il crescere dell’esperienza digitale, invece di vedere le opere d’arte fisicamente in un museo, su un palcoscenico, le persone devono credere sulla fiducia che esse abbiano davvero una loro aura. Devono accettare che c’è un mondo reale da qualche parte, ma che le notizie da quel mondo reale ci arriveranno solo in modo indiretto, sullo schermo.

 

CCB: L’altro giorno sono andata a visitare Villa Cerruti per verificare lo stato di conservazione delle opere d’arte. Temevo che si sentissero sole. Erano passate almeno tre settimane dalla mia precedente visita. Quando ho aperto la porta e sono entrata, sono rimasta scioccata, accecata dai colori del Modigliani. E quando guardavo il Pontormo da lontano, vedevo ogni piccola pennellata. Ero abbagliata e mi sono resa conto che avevo dimenticato come si guarda un oggetto fisico.

 

I nostri occhi si sono abituati a una visione allo schermo che essendo più piatta e banale cromaticamente, ha spinto i nostri occhi a sforzarsi. I nostri occhi allo schermo si devono sforzare e quindi la realtà mi sembrava accecante. È tremendamente inquietante apprendere con quanta facilità ci si dimentica della realtà dell’arte. Il museo è la casa dell’arte. Date le nuove tecnologie, oggi, quali sono le tue idee sul museo del futuro? Siamo in un momento di svolta in cui dobbiamo reimmaginare radicalmente il suo ruolo? I musei sono reliquie antiquate del XIX e XX secolo?

 

WK: Per me i musei sono luoghi che segnano una geografia personale, e questo ha a che fare con la memoria fisica di essere stato in una particolare città, edificio e stanza di un particolare museo. Questa esperienza non esiste nel formato digitale del cloud, dove tutto è da qualche parte e al contempo da nessuna parte. Entrare nel museo Stedelijk di Amsterdam, salire le scale e girare a sinistra nella stanza con i dipinti di Malevic costruisce una geografia che mi ricollega al me stesso a 18 anni, quando ho visto per la prima volta quelle opere. Questo è molto difficile con l’immagine digitale. Il fatto fisico dei musei è vitale.

 

CCB: Ma c’è oggi una crescente negatività della gente nei confronti dei musei che propongono una storia dell’arte canonica ed eurocentrica, per esempio dare per scontato che siccome Malevic era importante prima lo è anche oggi nell’èra della globalizzazione. Le persone oggi, nell’èra dei social media, non accettano questo necessariamente e vogliono cambiare i valori nella storia dell’arte, vogliono cambiarne la narrazione.

 

WK: Ci dovrebbero essere sforzi per pensare a storie alternative, ma non per cancellare quelle vecchie. In Sudafrica, hanno deciso che l’Opera e l’Orchestra erano forme d’arte occidentali antiquate, quindi il governo ha semplicemente interrotto i finanziamenti. Questo è quello che è successo anche alla Biennale di Johannesburg che ha chiuso i battenti dopo due edizioni (1995-1997). Per quanto imperfetti, i musei devono essere difesi. Sono così facili da chiudere ma così difficili da aprire.

 

C’è una parte di me che comprende la storia travagliata e i crimini su cui si basano tutte le collezioni d’arte e i musei, come il fatto che Tate sia nata dai fondi di un proprietario di una piantagione di zucchero. Ma la soluzione non è farli a pezzi. I musei dovrebbero avere una molteplicità di prospettive oggi, ma non sono d’accordo nel buttare via tutto e mostrare solo ciò che non è mai stato visto prima per scrivere nuove narrazioni.

 

CCB: I politici, sia di destra sia di sinistra, misurano i musei in base al fatto che ottengano un vasto pubblico. Cosa pensi al riguardo?

 

WK: C’è un senso di coinvolgimento di un pensiero adulto (aperto anche ai giovani). Si tratta di un diverso tipo di pensiero che si produce nei musei e che ha un valore anche se non attirano gli stessi numeri che si ottengono a una partita di calcio. I numeri dei visitatori non dovrebbero essere il metro di riferimento. I musei fanno parte del nostro tentativo di dare un senso a chi siamo in questo tempo e in questo luogo. All’interno di un’opera d’arte c’è un’apertura e un’incertezza che è vitale coltivare in questo momento.

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