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Il virus e la gran fuga dei compratori

Il vaccino dell’arte ha un nome: i collezionisti

Francesco Stocchi

L’età dell’oro del vendere tutto a ogni costo finirà. E il mercato è cambiato. Geografia di una rivoluzione

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Alla fine, speriamo che il ritorno da questa odissea, dolorosa, travagliata, talvolta eroica, non sia un ritorno alla Leopold Bloom, bensì un ritorno stoico, non necessariamente trionfante ma fatto di idee, di inattesi colpi di tamburo, di catene e legami spezzati, e di quella consapevolezza che accompagna l’ingresso in un nuovo ordine. Ci si augura quindi Ulisse di ritorno a Itaca ma si teme un Leopold Bloom che si trascina trai propri meandri mentali per le vie di Dublino. Se la data di riapertura di teatri, musei, gallerie, può essere legiferata paese per paese in base allo stato dei contagi, determinando di fatto una ripartenza dopo l’arresto, il mercato dell’arte non si è mai veramente fermato e i meccanismi inerenti alla sua ripresa sono lenti, complessi e animati da legittimi dubbi.

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Alla fine, speriamo che il ritorno da questa odissea, dolorosa, travagliata, talvolta eroica, non sia un ritorno alla Leopold Bloom, bensì un ritorno stoico, non necessariamente trionfante ma fatto di idee, di inattesi colpi di tamburo, di catene e legami spezzati, e di quella consapevolezza che accompagna l’ingresso in un nuovo ordine. Ci si augura quindi Ulisse di ritorno a Itaca ma si teme un Leopold Bloom che si trascina trai propri meandri mentali per le vie di Dublino. Se la data di riapertura di teatri, musei, gallerie, può essere legiferata paese per paese in base allo stato dei contagi, determinando di fatto una ripartenza dopo l’arresto, il mercato dell’arte non si è mai veramente fermato e i meccanismi inerenti alla sua ripresa sono lenti, complessi e animati da legittimi dubbi.

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Ben prima dell’arrivo della pandemia, era chiaro che il mondo dell’arte si fosse espanso oltre limiti sostenibili, un’espansione centrifuga ma non strutturale. Secondo uno dei numerosi rapporti del mercato mondiale dell’arte (in questo caso UBS e Art Basel), le vendite d’arte negli Stati Uniti sono più che raddoppiate rispetto al decennio precedente (circa 30 miliardi di dollari). Oltre il 50% dei proventi è andato al 5% dei maggiori rivenditori, mentre le vendite dei 20 migliori artisti viventi hanno rappresentato il 64% del totale, come riporta Jane Kallir dell’Art Newspaper. Tutta questa squilibrata abundatia è in pericolo di collasso, senza considerare la labile condizione delle piccole gallerie, fonte necessaria per coltivare talenti emergenti. Le fiere hanno rappresentato negli ultimi anni anche il 70% delle vendite di gallerie portate a soddisfare un sistema eccitato che richiede partecipazione nel sempre più fitto circuito fieristico: venire incontro a una costante, crescente domanda che esige quella visibilità, teatralità e mondanità che solo le fiere possono offrire. per rispondere al nuovo paradigma dell’acquisto dell’opera, lo status sociale che offre accesso a uno stile di vita di lusso distintivo, un circo itinerante e conviviale. Poi un nemico invisibile fermò tutto.

 

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Quindi se sappiamo quando la gente tornerà a frequentare i musei e visitare nuove mostre, è difficile determinare quando torneranno quelle condizioni, materiali e non, necessarie per la ripresa del mercato dell’arte. Fiere e case d’aste fondano il loro modello economico sul viaggio, la concentrazione di gente (altamente selezionata of course) in spazi chiusi e l’eccitamento emotivo per accaparrarsi il feticcio artistico di turno, chiave di accesso allo status symbol di questa nostra contraddittoria era dai buffi connotati. Nulla di tutto ciò è ora possibile ne sappiamo quando tornerà. Forse gradualmente, probabilmente con modalità diverse, sicuramente in forma ridotta.

 

Un ritorno all’era pre-anni’80? Da quel momento le case d’aste decisero di espandere la propria clientela ai ricconi: oltre i professionisti del mondo dell’arte e i collezionisti ossessionati-appassionati, si rivolsero a chi si era accontentato di acquistare immobili, yacht e gioielli e iniziandoli alla ricerca dell’invito alle cene che contano con veste intellettuale da portare in dote. Poi con la digitalizzazione e il concomitante sodalizio tra arte e cultura dell’intrattenimento, le case d’aste e manifestazioni fieristiche si sono trasformate in simil mercati azionari, attirando investitori, speculatori increduli di poter operare liberamente in quello che è forse rimasto l’ultimo mercato non regolato che conti. Quindi commercio opportunistico, ottimizzazione fiscale e garanzia dei prestiti che significa profitto a breve termine attraverso il flipping (rivendere un’opera recentemente acquistata, spesso senza che questa sia uscita dalla cassa rimasta in deposito). Ecco cosa si intende quando si parla di “mercato dell’arte globale” e di diffuso interesse verso l’arte. Non è che tutti si sono improvvisamente appassionati alla materia e d’un tratto leggono nel segno di Twombly il dramma poetico della perduta era classica. Piuttosto un contesto unico nel suo genere che può offrire in breve tempo attraverso il commercio opportunistico, l’ottimizzazione fiscale e la garanzia dei prestiti, lauti guadagni, riconoscibilità, divertimento e una dose di intellettualismo. E scusate se è poco. Negli ultimi 25 anni, ci si è spostati da una ricerca estetica a un’attività di classe, gradualmente separando l’arte dal mercato dell’arte.

 

Per alimentare continuamente questa crescita esponenziale, si è puntato su un nuova alchemia, l’esclusività mista a l’inclusività. L’idea di appartenere a un circolo cool su ampia scala, che offre accesso a uno stile di vita di lusso distintivo, un circo itinerante, aperto e conviviale. Il paradosso di un’esclusività disponibile a tutti attraverso l’arte come esperienza, concetto diffuso negli anni ‘60 e ‘70 come protesta contro la mercificazione dell’oggetto, che oggi ha preso le forme delle borse Louis Vuitton di Murakami, i piatti, foular, gioielli di Koons o Hirst, dei murales buonisti di JR o dei pupazzetti di Kaws. Il tutto amplificato dal pubblico attraverso i social media che hanno conferito al mercato quel necessario e confortante consenso: il gusto diffuso segue tali scelte. Le conseguenze di un’arte fotogenica sono ovvie e inevitabili.

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Si sono viste nuove forme di adattamento a questo stop pandemico e a questi radicali cambiamenti in atto. Nuove forme che in realtà non sono altro che l’ampliamento e accelerazione nel futuro di quelle già in atto. Per esempio, le vendite online su cui è stato detto e scritto tanto, sono più simili a un televangelismo messianico che ad aste vere e proprie, trasformandosi in televendite in veste Scientology. Queste forme di immediata riparazione alla crisi denotano un chiaro malessere e difficoltà di adattamento dal vecchio al nuovo ordine. Come Chateaubriand che non cessa di vivere nell’ambiente dove è cresciuto, rivendicando la sua figura d’aristocratico fedele ai Borboni. Il sistema globale dell’arte, trovatosi all’improvviso in una rivoluzione di materia, spazio e umori talmente radicale da dover ripensare la concezione stessa di mercato, si preoccupa di ricucire ciò che il virus ha diviso, il 2020 un po’ come il 1789. La mia casella di posta non è mai stata così piena di messaggi di gallerie, accalorati quanto legittimi richiami per dire “ancora esistiamo”. Annunci che arrivano ogni giorno, più volte al giorno, inviti di accedere a esclusive “sale di visualizzazione online”, di partecipare a un’esclusiva studio-visit virtuale o di visitare una mostra che è esclusivamente online. Appariscenti risultati sono stati esaltati da articoli in difesa delle vendite online e del presunto “nuovo” (un Koons da $8m di qua, un Mark Bradford da $5m di là), ma leggendo i numeri nel loro complesso, le case d’aste hanno registrato nella prima metà del 2020 un calo delle vendite del 49%. La ricerca di nuove forme di organizzazione diventa necessaria al di là del semplice e pigro surrogato online.

 

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La capitale lituana di Vilnius, in collaborazione con l’operatore pubblicitario, JCDecaux Lietuva, ha organizzato nelle piazze, accanto alle stazioni, fermate del bus, 100 cartelloni pubblicitari, per promuovere opere in vendita di 100 diversi artisti lituani. L’operazione ha riscontrato successo e interesse diffuso, descritta come “una vasta galleria d’arte all’aperto”. Ma tutto torna appunto alle gallerie, luoghi fondamentali, imprescindibili dove ho personalmente avuto modo di vivere le esperienze artistiche più radicali e significative, custodi di un ruolo imprescindibile per la proposizione e lo sviluppo di nuove forme creative. Come sono organizzate internazionalmente le gallerie e cosa dovrebbero o potrebbero cambiare?

 

Generalmente la galleria offre opere d’arte attraverso la “rappresentazione” di un dato artista, ovvero attraverso il diritto esclusivo di vendere le proprie opere, diritto esercitabile all’interno di una città, di un paese oppure nel mondo intero. La vendita viene di solito divisa tra artista e galleria al 50%, ma la percentuale può variare (anche fino a 95/5) a seconda degli accordi, della richiesta dell’artista o dell’importanza della galleria. Tutto dipende dalla negoziazione tra le parti e dall’impegno rispetto alle spese accessorie, sempre più alte, necessarie per organizzare una mostra: spedizione, documentazione, allestimento, pubblicità, etc. Tutto si decide con una stretta di mano, senza avvocati (almeno da parte dell’artista), il che lascia una serie di aspetti galleggiare nelle torbide e creative acque dell’ambiguità. Un artista che ha recentemente deciso di lasciare la sua galleria svizzera si è trovato/a come buonuscita con un debito stratosferico nei suoi confronti, elencato nei minimi dettagli da spese di trasporto galleria-deposito, dai giorni di degenza nello stesso, dalle spese di costruzione delle casse, etc. Se poi si palesasse l’occasione di esporre un’opera di grandi dimensioni che richieda importanti costi produttivi, la galleria funziona da banca, anticipandone i costi. Se l’opera non si vende, l’artista è investito da un debito che probabilmente si somma a quello contratto all’università per il pagamento della retta (negli Stati Uniti funziona così). La galleria quindi, non solo offre lo spazio e le condizioni per esporre pubblicamente il proprio lavoro, per venderlo, direttamente o tramite consulenti (altra percentuale), e per farlo conoscere ai musei. Attraverso i loro contatti e il loro status, le gallerie conferiscono all’artista la garanzia di essere parte attiva del gioco e non solo un mero spettatore. E più la galleria è riconosciuta, meno questo ruolo è marginale.

 

Al di là della cerchia di quei fedelissimi professionisti, l’arte si è spostata da una ricerca intellettuale di gusto e di estetica, a essere uno strumento di classe e di investimento. Un asset sviluppatosi in parte con il consolidamento del mercato dell’arte intorno a un piccolo numero di mega-gallerie (con più di 100 dipendenti ognuna) e una conseguente compressione su tutto il resto. E quando le gallerie sono in difficoltà, sono gli artisti i più colpiti. La scorsa settimana la “Gavin Brown Enterprise” ha chiuso la propria attività. Una galleria fondamentale dalla metà degli anni ‘90 nella promozione di nuovi talenti, ma soprattutto nell’incarnazione di uno stile audace, rapace e al passo con i tempi. Il gallerista Gavin Brown è divenuto partner della storica Marian Goodman Gallery, portandosi in dota i miglior artisti della sua scuderia, e di fatto contribuendo, suo malgrado, al crescente divario piccole/grandi gallerie in atto in questi tempi. A complicare le cose, le mega-gallerie hanno iniziato ha fare il lavoro delle piccole, la loro situazione economica permettendogli di investire in immagine attraverso progetti non direttamente legati al mercato. Hauser&Wirth presenta nei suoi spazi di Somerset e di Los Angeles, una serie di mostre di laureati delle accademie le cui mostre di tesi sono state cancellate. Altre hanno offerto alle gallerie in difficoltà delle loro città (Parigi, new York, Los Angeles), i loro spazi (fisici e virtuali) con la speranza di risollevarle da una situazione difficile ma di fatto contribuendo alla crescita del sistema piramidale in atto. Poi case d’aste che si occupano di primo mercato, cioè che offrono alla vendita opere direttamente prese dagli artisti. Il rischio è che la creatura diventi come Uroboro, mitologico serpente che si morde la coda per rappresentare il potere di oggi, tutto speculare, autoreferenziale, divorante e replicante. La speranza è invece che l’invisibile virus metta fuga in compratori, lasciando spazio ai collezionisti grandi e piccini e che l’età dell’oro del vendere tutto ad ogni costo si ridimensioni in termini qualitativi anche perché se si compra un’opera in una privatissima stanza di visualizzazione online e nessuno lo vede e il dipinto sparisce prima ancora di essere pubblico, è successo davvero?

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