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Il Figlio

I ricordi di un’artista da piccola e il potere della scrittura. Deborah Levy

Michele Neri

"Cose che non voglio sapere" è molto di più del carnet di ricordi di un’artista da piccola, o il resoconto dei feroci strappi che l’hanno trascinata dalla natia Johannesburg nel Sudafrica dell’apartheid, all’esilio, prima a Durban, poi in Inghilterra

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In estrema sintesi, questa è la storia di come una bambina che non osava parlare, tantomeno alzare la voce o interrompere gli altri, crescendo apprende a parlare, sempre più forte, liberando ciò che era tra le righe dei suoi pensieri, fino a creare la sua voce, “che non è affatto forte”. Cose che non voglio sapere, primo volume della trilogia Autobiografia in movimento di Deborah Levy (traduzione di Gioia Guerzoni, NNE), è molto di più del carnet di ricordi di un’artista da piccola, o il resoconto dei feroci strappi che l’hanno trascinata dalla natia Johannesburg nel Sudafrica dell’apartheid, all’esilio, prima a Durban, poi in Inghilterra.

Agitando memoria e luoghi come emozioni in uno shaker, producendo da queste un’indisciplinata successione di eventi piccoli o enormi riassunti in giudizi esemplari, Deborah Levy mostra il potere della scrittura. Scrivere è trascendere le esperienze più dolorose – dai cinque anni di reclusione e tortura del padre prigioniero politico, all’allontanamento in un educandato, alla separazione dei suoi genitori poi sua –; trovare la propria voce permette di raggiungere un luogo migliore, quando ci si sente minacciati dalle “persone che avrebbero dovuto farmi sentire al sicuro”. 

La narrazione parte dalla crisi: si manifesta con pianti violenti sulle scale mobili della metropolitana londinese. Deborah Levy decide di partire; è un perdersi a modo proprio, traduzione concreta di liberare ciò che prima restava tra le righe. Da Londra vola di notte a Palma di Maiorca per isolarsi in una pensioncina di montagna: ogni sua parola incide – “fumare tabacco spagnolo da due soldi con un retrogusto di calze sporche sotto un pino era molto meglio che trattenersi dal crollare sulle scale mobili”. Interverrà il caso a rievocare un passato che lei pensava finito: l’incontro con un negoziante cinese che le domanda semplicemente dov’è nata.

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Cose che non voglio sapere non è soltanto la scoperta di un vocabolario necessario per liberarsi dalle costrizioni linguistiche imposte alle donne: bambine, adolescenti, adulte, madri che siano; e così da un pensiero a loro estraneo e che le vuole passive ma ambiziose, “pronte al sacrificio ma appagate”, colpevoli senza colpe. Anche qui i suoi affondi colpiscono: “Come siamo brave a ridere di noi stesse, dei nostri desideri. Ci prendiamo in giro, prima che possa farlo qualcun altro. Siamo programmate per uccidere, uccidere noi stesse”.

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E’ una testimonianza dei meccanismi dell’apartheid e di ogni razzismo: “Se un uomo bianco aizza il suo cane contro un bambino nero e per tutti è accettabile, se i vicini e la polizia e i giudici e gli insegnanti dicono ‘A me sta bene’, vale la pena di vivere? E cosa fanno le persone convinte che non è per niente accettabile? Ce ne sono abbastanza nel mondo?”. 

E contiene una delle più pure dichiarazioni d’amore di una figlia – di cinque anni – per il padre portato via dalla polizia. La neve, a Johannesburg è un evento eccezionale come quello a cui assiste. “In pigiama, vado in giardino a consultarmi con il pupazzo di neve. Gli parlo come si fa con Dio, gli parlo nella testa e lui mi risponde. 

‘Cosa succede adesso?’. 

Il pupazzo di neve mi dice: ‘Tuo padre verrà gettato in prigione e torturato e urlerà tutta la notte e non lo vedrai mai più’. (…)

Al mattino il pupazzo di neve era scomparso, proprio come papà. Che cos’è un pupazzo di neve? E’ una presenza panciuta e paterna che i bambini costruiscono perché vegli sulla casa”.
In questo piccolo libro c’è moltissimo, in rapidi magnifici flash. Anche se preceduto da Virginia Woolf, Simone de Beauvoir, George Sand e altre, è un testo da cui partire, per imparare ad alzare la voce, o dar vita al movimento.

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