Il Figlio

Louise Glück e le domande sull'infanzia a cui nessuno può più rispondere

Michele Neri

Le poesie di Louise Glück sono dense di silenzi e tracciano i confini propri di ogni famiglia

C’è tanto silenzio nelle poesie di Louise Glück, quello in cui le domande perdute ti trovano. Spesso le abbiamo seppellite per correre più in fretta. Così anche nell’ultima raccolta tradotta da Massimo Bacigalupo per il Saggiatore: Ricette per l’inverno dal collettivo. Apro la poesia Pensieri notturni: poche parole tracciano i confini del sistema solare di qualsiasi famiglia. “Sono nata tanto tempo fa / Non c’è nessuno in vita / che mi ricordi da bambina. / Ero una bambina brava? / Cattiva? Tranne che nella mia testa / questo dibattito ormai / tace per sempre”. La domanda mi agita, non riesco a ignorare l’urgenza e l’irreperibilità di una risposta: quanti vivono o hanno vissuto accanto a me senza che nessuno possa o potesse più rispondere per loro? Per gli etruschi il saeculum era anche la massima estensione temporale in cui un evento rimane vivo nella memoria di qualcuno, per poi scomparire definitivamente. Ero una bambina brava? Nella mia famiglia ci sarà chi se lo sta domandando e soffre in silenzio, perché non trova risposte? Perché non esiste un “luogo” in cui sono conservate le tracce di quelle creature selvatiche, capricciose, musone, insonni, urlanti, caoticamente ilari, esplosive? Quel loro saeculum è finito per sempre.


Mio nonno, era un bravo bambino? Sicuramente: io l’ho visto, era così mite; ma è un’ipotesi tardiva, portava già le bretelle agganciate a calzoni grigi. Mio padre, mia madre. Domandare a loro? Mi guarderebbero straniti. Per quanto anziani, o proprio per questo, non amano intrusioni. Ma non è crudele vivere senza che una voce possa confermare: Sì eri davvero bravo, perchéVorrei aver conosciuto parenti, amati e amici da piccoli, così da testimoniare per loro, estendendo la durata del loro saeculum; perché possano opporre qualcosa di integro e inconfutabile quando il resto si sgretola. Perché da soli ci giudichiamo male. Anche Louise Glück: “Fin troppo presto mi sono rivelata / per quel che sono / robusta ma acida / come una sveglia”.


Uno vive decenni da figlio e, se è molto fortunato da nipote, ma non conosce la verità prima, utile dopo, quando scopre di essere diventato il padre o la madre dei propri genitori. Ti devi accontentare di caricature e vorresti l’originale, perché sapresti reagire meglio davanti ai loro capricci, alle paure, all’esultanza. Magari i geni potessero andare all’indietro e trovassi così nel mio il loro principio. Io, ero un bravo bambino? Non oso chiederlo ai miei genitori. Temo la commozione riassunta in un sì. O la risposta è nella commozione? Servono fatti. E li vorrei primordiali. L’esige la poesia: “E come devo essere stata piccola, sospesa / dentro mia madre, che mi tastava / con approvazione. / Che peccato che ho cominciato / a esprimermi a parole, senza rapporti / con quella memoria. L’amore di mia madre!”. Ero buono o cattivo? E in che misura? In seconda elementare ho fatto la spia. Ma dormivo come un sasso. Nelle foto sono timido. Bastano, come risposte? Louise Glück affronta una simile penuria: “Cosa costituisce / un bambino cattivo, mi chiedevo. Coliche, / diceva mia madre, cioè / piange molto”. Desideriamo parole in cui aver fiducia: per procedere con le spalle coperte quando la vita le scopre; una ricetta, dice il titolo, per l’inverno.


Ho la fortuna di aver osservato a lungo e di nascosto i figli, oggi preadolescenti o giovani adulti. Se intuivo un indizio sull’alba del loro carattere lo segnavo su un piccolo quaderno. Queste impressioni si estendevano a me. Nel relazionarmi con la loro infanzia, potevo ritrovare un me bambino e plausibile. Non chiedo a mio figlio se crede di essere stato un bravo bambino. E’ già verso domande che altri dovrebbero porre su di sé e invece corrono e non leggono le poesie di Louise Glück.

Di più su questi argomenti: