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il figlio

Vite di passaggio

Giacomo Giossi

Dopo i quarant’anni perdere tutto e ritrovare il senso, alla francese

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Dire cose ambigue e fare cose prive di senso, ma che prima – poco prima – sembravano averne molto. Succede in particolare agli uomini o meglio ai maschi, verso i quarant’anni o poco oltre. Si perde l’equilibrio e l’elasticità soprattutto in amore, nell’amore che viene prima delle decisioni e delle affermazioni. Tutto si restringe e diventa fragile e duro, si va fuori giri.

Si ascolta con malinconia il rumore sordo del pallone contro il muro calciato dal ragazzino che non si può più essere, si intravede la bellezza giovane dei vent’anni che non si hanno più e con i grilli ancora in testa dell’amore e del coraggio da fine estate si perde la partita con l’età adulta a cui si appartiene, pur non volendolo. Dire crisi di mezza età è facile, forse anche giusto, ma non è affatto preciso. Dire che la realtà è scadente come Fabietto di E’ stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è invece più che preciso, ma unire vita e sogno non è cosa da tutti, anche se la felicità a tutti in un certo senso lo richiede. Come fare allora?

Ritrovare il ritmo, ritrovare la luce è quello che si augura Sacha, il protagonista quarantenne in fuga da Parigi e diretto a V. nel sud est della Francia, nell’intenso romanzo di Sylvain Prudhomme, Vite di passaggio. Sacha sa che deve fare i conti con il proprio passato, ma non avvitarsi e perdersi con i giochi della memoria e sa anche che viaggiare e fuggire troppo spesso rischiano di diventare sinonimi. Arrivato a V. Sacha si immerge nel sole morbido della provincia in una casa ammobiliata che lo porta allo stato di attempato studente fuori corso. E qui ritrova il suo vecchio amico di cui resta oscuro il nome e sempre denominato l’autostoppista, con lui la moglie Marie e il figlio Augustin. Sacha invece è solo, fa lo scrittore e ha tutto da rischiare perché ha poco da perdere: seduce con gli occhi, con le sue assenze, con le sue parole misurate eppure buttate lì in mezzo al discorso. L’autostoppista invece ha viaggiato molto e continua ancora ora a farlo e porta con sé le stigmate di un eroismo giovanile imperituro.

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Sylvain Prudhomme che con Vite di passaggio ha vinto il prestigioso Prix Femina è uno dei più promettenti scrittori francesi contemporanei, viaggiatore assiduo e per certi versi alter ego dell’altro Sylvain francese, scrittore e viaggiatore per eccellenza, Tesson. Ma se la scrittura per Tesson assume la forma di un’esplorazione assidua e perfettamente perpendicolare al proprio cammino, per Prudhomme il tema è la rifrazione. Chiaramente Sacha si confronta con l’autostoppista, ma l’esito non è una sfida a due o con se stessi, ma coinvolge pienamente anche Marie e Augustine. La bravura di Prudhomme è principalmente nel dare forma e spazio a quattro voci in perfetto equilibrio, tutto ciò che vi tracima è la storia. Dalle cartoline che l’autostoppista manda dai suoi viaggi, agli sguardi di Sacha su Augustine che vede distante e aderente a sé in una confusione continua tra presente e passato. Chi si è e chi si vorrebbe essere, così con Marie, con le sue parole ferme e la possibilità che nonostante tutto aprono in lui. L’autostoppista descrive la vita delle persone che incrocia nelle sue cartoline, Sacha la vede davanti a sé (Romain Gary docet) finalmente ricomporsi.

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Vite di passaggio è il racconto di una solitudine possibile, quella di chi viaggia fino a perdersi per restare in vita e di chi dopo tanto rubare decide finalmente di partecipare alle vite, fermandole alla luce del sole, cogliendo la lezione di un bambino e della sua felicità. Fare a meno di tutto per tenersi una parte, abbandonare lo spreco della giovinezza per evitare gli avanzi della vecchiaia. Commettere infine un tradimento purché sia per la propria felicità senza più timore di perdere o di sbagliare perché il tutto inseguito per anni si racchiude in una vita libera e non più scadente.
 

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