il figlio

Solo l'inizio

Maria Grazia Calandrone*

La vita che freme. Il lavoro. Il porte-manteau decorato. Che tradimento, il futuro

La forma di corona regale delle montagne, il ghiaione delle costruzioni da finire, il pullulare insonne della vita. 

 
Le impalcature brulicano di ragazzi in canottiera bianca, coi secchi di calce in mano, la cazzuola affondata nella malta. Il lavoro non spaventa. Il lavoro è pane. La scia di sangue della guerra si sta asciugando, è la bestia rossoscura che torna a imboscarsi nelle profondità del cuore umano e lascia netta e splendente la superficie delle cose.

 

Loro due sono giovani. Così giovani da prendere un treno e poi una corriera, da Roma fino a Cantù, per scegliere i mobili della casa coniugale. Negli anni Cinquanta andare da Roma fin sopra Milano richiede un’intera giornata di viaggio. Si prendono tempo, hanno tutto il tempo: il loro amore è vuoto, pieno solo di sé. Hanno una vita ancora disabitata da arredare, una prospettiva. 

 
Sul treno, i maschi gliela invidiano, è davvero bellissima, col sorriso infantile e il corpo generoso. Stanotte dormono tra i mobilifici di Cantù, a pochi passi dalla Svizzera. Tornati a Roma, lei cercherà (invano, per tutta la vita) il croccante, aromatico Emmentaler Switzerland stagionato in grotta, così secco da stridere appena, quando i denti puliti lo mordono. Il rimpianto di un morso, il rimpianto dell’indecifrabile sorriso del futuro. 

 

Intorno, tutto è attivo. E’ l’Italia della ricostruzione. 

 
Laminatoi, colate, stamperie del ferro dove, nell’altoforno degli anni a venire, prenderanno forma i dettagli cromati di fusti, canne e carrelli di milioni di pistole Beretta. Gli operai lavorano la terra fino allo scheletro della terra. Lui ha cominciato come operaio metallurgico della Ilva, ama i lavoratori, li difende.

  

L’euforia dell’amore si riconosce dai gesti inutili, la prospettiva della leggerezza del futuro sta nella cura per il superfluo, per la decorazione e per l’arte che, com’è ovvio, non serve a niente. L’amore, invece, serve, perché la specie continui. 

 

Invece di un semplice attaccapanni, i promessi sposi comprano un ingombrante, elegantissimo, istoriato armadio appendiabiti a specchiera grande, che lei ama definire porte-manteau e che non userà mai, perché teme (a ragione) che la lana dei cappotti, restando appesa tutta la notte, possa ingobbirsi. Lei ha cura delle cose. Le lucida, le piega, le mette nei cassetti in un ordine chiaro. Lei organizza le cose in una geometria razionale dentro la quale scivola la vita, liscia come una biglia. 

 
Così, nel porte-manteau restano stabilmente appesi per anni solo tre cappelli: due borsalini grigi a tesa media, uno chiaro e uno scuro, di feltro rasato con fascia di raso nero, e il bellissimo turbante nero di velluto liscio, con spilla d’argento, che la madre di lei indossa ogni domenica per andare a messa. 

 
La casa profuma di cera, olio per mobili e cucina. Lui fuma le Gauloises morbide senza filtro, solo in balcone. D’inverno, sul pianerottolo. Fuma molto. Lei gli dice, ogni giorno: “Ti rovini i polmoni”. Queste persone hanno relazioni semplici e profonde fra loro, mangiano insieme, ascoltano la radio, ne discutono. Queste persone sono una famiglia, hanno una vita. 

 

Davanti al porte-manteau di legno chiaro di Cantù, piazzato all’ingresso come un testimone silenzioso, sono andate e venute persone, la porta d’ingresso si è aperta e richiusa alle spalle di decine di condomini, studenti, amanti, amici, infermieri, psicologi. Alcuni medici hanno aperto l’anta scorrevole e hanno appeso i cappotti di lana ai pomelli d’ottone, mai abbastanza a lungo da deformarli: “Non c’è molto da fare”.

  

Davanti a quello specchio lui è dimagrito a vista d’occhio. Davanti a quello specchio lei ha urlato. Contro di me, sua figlia, contro la vita che non ha mantenuto le promesse. Contro il rimpianto di un formaggio svizzero. Contro l’irrimediabile.

  
*Maria Grazia Calandrone, Il suo ultimo libro è “Splendi come vita” (Ponte alle Grazie)

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