Foto di Imad HADDAD - NYC-1, CC BY 2.0 via Wikipedia

Il Figlio

Fumo e profumo

Francesca Pellas

A ognuno il suo miracolo: per Elizabeth Hardwick è sempre la città santa, New York

Ci sono due modi per scrivere di una vita: da fuori, oppure dall’alto. Se si sceglie la seconda opzione, e quindi la vita è la propria, bisognerà distaccarsi da ciò che si è lì dentro e librarsi al di sopra delle cose, per poterle vedere come un’opera in più atti. Per Elizabeth Hardwick, una delle maggiori critiche letterarie americane del Novecento, tutta l’esistenza è stata un andare e venire, per poi sempre tornare, a quella che lei chiamava la città santa: New York. “Per il pellegrino verso la Mecca la città tremava di pericolose salvezze”, scrive in Notti insonni, pubblicato nel 1979 e appena tornato in libreria per Blackie Edizioni nella traduzione (stupenda) di Claudia Durastanti.

 

Un libro che è romanzo, memoir, sogno e lettera, e niente di tutto questo, e tutto questo insieme, o forse, nella sua definizione più semplice (data dalla stessa Hardwick), un lavoro di memoria trasformata. “A volte la pioggia era bellissima. Le striature lavanda e argento, luccicanti nel fango, chiedono di essere onorate, di ricevere qualche parola di gratitudine”. Una prova di che dono enorme sia la scrittura, per chi sa maneggiarla senza paura. Di lei Susan Sontag diceva: “Le sue frasi sono marchiate a fuoco nella mia mente. Penso che scriva le frasi più belle mai scritte, più belle di quelle di qualsiasi scrittore americano vivente”.

 

Hardwick era nata a Lexington, in una famiglia numerosa e modesta, e aveva avuto un’infanzia felice. Dopo la laurea alla University of Kentucky nel 1939, si era trasferita a New York per proseguire gli studi alla Columbia. E qui, finalmente arrivata alla Mecca, tutto ebbe inizio. “Non è vero che non importa dove vivi, che sei sempre tu, sia a Hartford che a Dallas”. Ciascuno di noi ha il suo luogo principe, e per capire qual è basta chiedersi dov’è che la vita ci sembra vera: a ognuno il suo miracolo. Negli anni Quaranta abitava all’hotel Schuyler, una stamberga sulla 45esima strada ovest, insieme a un amico gay con cui si comportava come fanno tra loro gli amici stretti, ovvero come una vecchia coppia, con gelosia e porte sbattute; lei di notte lo accompagnava nei locali in cerca non di uomini, bensì di jazz.

 

Così incontrarono Billie Holiday, che diventò loro amica, pur nella sua inafferrabilità. Alla fine di quel decennio Hardwick conobbe e sposò il poeta Robert Lowell, il cui talento e celebrità erano grandi quanto i baratri in cui poteva sprofondare a causa della malattia: soffriva di un disturbo bipolare, e nei loro primi quattro anni di matrimonio ebbe quattro tremende crisi, durante le quali lei gli fu sempre accanto. Nel 1957 nacque la loro figlia, Harriet. Nel 1963, nel corso del leggendario sciopero di 114 giorni dei giornali di New York, fondarono la New York Review of Books insieme agli amici Robert B. Silvers e Barbara e Jason Epstein. Nel 1970 Lowell lasciò Hardwick per Caroline Blackwood, salvo poi tornare da lei dopo qualche anno. In mezzo ci fu uno scandalo: la pubblicazione della raccolta di poesie The Dolphin, in cui lui non solo incluse stralci di lettere di Elizabeth, ma lo fece cambiando molte parole; questo gli portò critiche anche da cari amici, e la poeta Adrienne Rich lo definì “uno degli atti più vendicativi e meschini nella storia della poesia”.

 

Eppure, a guardare la vita da sopra, sorvolandola come in sogno, persino il dolore può acquisire un senso. “Succedono molte cose tra i vari atti. Tutto mi è arrivato, tutto mi è stato tolto”. Magari ci sono esistenze più avventurose, almeno in apparenza: “Certo, non ha la stessa enfasi di: ho avvistato il vecchio nostromo dalla barba bianca sul ponte e mi sono arruolata per il viaggio. Ma in fin dei conti sono una donna, io”. E viene da ringraziare, perché il viaggio nella mente sconfinata di questa donna è altrettanto fitto di onde, di maree e di improvvisi squarci nel cielo, di veri e propri doni. Una magia viola, o forse rossa come il cappotto che una ragazza del Kentucky metterebbe in valigia per trasferirsi a New York: quello era tutto ciò che occorreva, insieme a “fumo e profumo e da qualche parte un cuore che batteva”.