Charb (Stephane Charbonnier) - foto Franck Prevel/Getty Images

Mio caro Charb

Mauro Zanon

Lettera di una madre al figlio ucciso senza occhiali, direttore di Charlie Hebdo

Sette gennaio 2015, mezzogiorno. I coniugi Charbonnier, Denise e Michel, si apprestano a pranzare. La radio, come tutti i giorni, è sintonizzata su France Inter. “Attentato a Charlie Hebdo”, annuncia una voce gelida. “Papà e io ci guardiamo, increduli. Decido di chiamarti subito ometto mio, ma non ricevo nessuna risposta. C’è solo la segreteria telefonica. ‘Dimmi Stéphane, cos’è successo a Charlie? Qualcosa di grave?’. Non mi rispondi, non mi risponderai più”. Inizia così “Lettre à mon fils Charb” (JC Lattès), la lettera di una madre, Denise Charbonnier, al suo petit bonhomme, Stéphane, direttore e quintessenza del settimanale satirico Charlie Hebdo fino a quel giorno maledetto di sei anni fa, quando la violenza islamista irruppe al 10 di rue Nicolas Appert e glielo portò via per sempre. 

 


“Sono seduta alla tua scrivania, che ora è la mia. Guardo le foto che ho disposto attorno a me. Ci sono solo ricordi felici, le risate assieme a te mio Stéphane, e noi quattro tutti assieme, io, te, il papà e il tuo fratellino Laurent. Era tutto bello e meraviglioso dal 21 agosto 1967 al 7 gennaio 2015 a mezzogiorno”, scrive Denise Charbonnier. E’ una lettera piena d’amore verso il suo “Chachane”, come lo chiamava affettuosamente fin da quando era un bebè, verso quell’eterno fanciullo che non smetteva mai di scherzare e con la forza della sua matita faceva ridere tutta la Francia. Quello di Denise, tuttavia, è anche un grido di rabbia rivolto a quelli che sapevano ma non hanno fatto niente, i François Hollande e i Manuel Valls, quelli che governavano il paese ma hanno abbandonato i combattenti del libero pensiero come Charb. “Tu dicevi spesso: ‘Loro lo sanno, potrebbero fare qualcosa, ma non lo fanno’. Parlavi della minaccia islamista che pesava su di te, su Charlie Hebdo e sul paese. Parlavi di cecità dello Stato, dei politici in generale, di alcuni militanti. Parlavi di tutte quelle persone, spesso anche amici di sinistra, che vi rimproveravano di portare avanti quella battaglia, di ‘gettare olio sul fuoco’, spingendosi fino ad accusarvi di razzismo nei confronti dei musulmani. Ma avevi ragione mio Chachane, c’era un pericolo: sapevano, potevano, ma non hanno fatto nulla!”, tuona Denise Charbonnier. E ancora: “E non mi si venga più a parlare di eroe. Non sei un eroe, sei prima di tutto una vittima di quei pazzi furiosi e della negligenza dello Stato. Ci porteremo dentro questo dolore fino alla nostra morte”. Perché non è vero che “il tempo placa il dolore” straziante provocato dalla morte di un figlio, scrive Denise, e i “Je suis Charlie” ripetuti oggi come slogan vacui da coloro che fino alla vigilia dell’attentato accusavano Stéphane e la sua banda di vignettisti di essere “islamofobi”, non fanno altro che aggravare quel sentimento. Ma Charb, nonostante tutto, è ancora presente. “Mio adorato Stéphane, sei nel mio cuore, nella mia testa, nella mia carne, ogni minuto che passa. Sei qui con me e nessuno, né alcun tormento, potrà impedirlo”, scrive la madre. 


Da piccolo era timido l’ex direttore di Charlie, ma aveva sempre il sorriso sulle labbra, anche quando i suoi compagni di scuola lo prendevano in giro chiamandolo “scimmietta con gli occhiali”. Stéphane ci teneva moltissimo ai suoi occhiali quadrati, una madeleine che lo riportava alle passeggiate con la mamma, quando tornavano a casa da scuola mano nella mano. “Te ne prendevi cura, li appoggiavi dolcemente sul comodino prima di addormentarti, non li hai mai abbandonati: guai a chi ti toccava gli occhiali!”, ricorda Denise. Quando assieme al marito è andata nella sede della polizia giudiziaria, a Parigi, per recuperare le poche cose che restavano del figlio dopo l’attentato, tra la sua giacca in pelle, i suoi guanti neri e un piccolo quadernino con alcuni disegni c’erano anche i suoi occhiali, intatti: un miracolo. 


“Quando ti sei trovato di fronte ai due fratelli assassini, forse hai detto loro: ‘Aspettate un attimo che appoggio gli occhiali…’. Ne saresti stato capace”. 
 

Di più su questi argomenti: