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Il Figlio

La luce del dolore

Alberto Schiavone

Solo vivere, importa. Il regalo della letteratura luminosa  al nostro sollievo

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Questo non è un libro sul conflitto tra Israele e Palestina. Sull’occupazione. Sulla storia di una guerra che pare non avere ancora fine. Nessuno si senta offeso, il torto ci abiterà comunque. “Il proiettile che uccise Abir aveva attraversato l’aria per quindici metri prima di colpirla dietro la testa, frantumandole le ossa del cranio come quelle di un minuscolo ortolano. Era andata in drogheria a comprare delle caramelle”. Le caramelle più costose del mondo, le dichiarerà nel tempo suo padre Bassam.

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Questo non è un libro sul conflitto tra Israele e Palestina. Sull’occupazione. Sulla storia di una guerra che pare non avere ancora fine. Nessuno si senta offeso, il torto ci abiterà comunque. “Il proiettile che uccise Abir aveva attraversato l’aria per quindici metri prima di colpirla dietro la testa, frantumandole le ossa del cranio come quelle di un minuscolo ortolano. Era andata in drogheria a comprare delle caramelle”. Le caramelle più costose del mondo, le dichiarerà nel tempo suo padre Bassam.

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È un libro che non è un romanzo e non è un resoconto. È la trascrizione geografica del dolore, quindi infallibile. “Piano piano Bassam si rese conto che la sola cosa ad accomunarli era che entrambe le parti un tempo volevano uccidere gente che non conoscevano”. Bassam e Rami sono due uomini, uno palestinese e uno israeliano. Hanno dimenticato l’odio e la pigrizia di chi parteggia, per combattere soltanto in un’altra direzione, vaga e sperduta, quella della pace. Hanno perso le loro figlie bambine. Uccisa da uno sparo alla nuca dal fucile di un soldato diciottenne Abir. Dilaniata in un attentato suicida per strada Smadar. “Bassam e Rami giunsero gradualmente a capire che avrebbero usato la potenza del loro dolore come arma”.

 

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La narrazione è organizzata in paragrafi. Dall’uno al cinquecento. Poi il milleuno. Di nuovo quindi dal cinquecento all’uno. Il filo rimane teso, come il cavo di acciaio del funambolo Philippe Petit nel maggio del 1987 sulla Valle dell’Hinnom. Alle spalle la Città Vecchia, davanti il Monte Sion. Ci sono le vite dei due padri offesi dal lutto. Ci sono le tracce delle due vite cancellate dalla violenza. C’è il lavoro di chi si sveglia e decide per l’esercizio ridicolo e sbeffeggiato della pace. Della parola. Della ricerca dell’altro. Quanto ci pare anacronistico oggi pensare alla pace, oggi che siamo chiusi dentro un incubo ovattato e burocratico dettato da un’emergenza sanitaria. Oggi che la guerra è qualcosa di così lontano e quasi fastidioso. Una parola che non sentiamo più. La guerra che però c’è ancora. Anche quella tra Israele e Palestina.

 

C’è una potenza nel nostro dolore che obbliga a scansare la cronaca, l’attuale. La trafila dell’inaudito percorre i cieli, come stormi di uccelli che in questo libro vogliamo seguire, affaticati da rotte infinite, uccisi da incidenti e ostacoli. Il volo libero come aspirazione e augurio, come preghiera per chi subisce, per chi è catturato, per chi è vittima del proprio orrore. “Ieri ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Oggi sono saggio e ho cominciato a cambiare me stesso”. Ho imparato molto in queste pagine, e mi rendevo conto mentre imparavo che questa esperienza mi mancava, non mi succedeva più tanto spesso. Mi sono stupito che da un libro mi arrivasse un regalo. Me ne sono dispiaciuto, di questa mia sorpresa. Io che di libri vivo da sempre. 

 

Solo vivere, importa. È un messaggio dei tanti che ritorna dentro “Apeirogon” (Feltrinelli). Mi è parso di essere raggiunto dal suono dei secoli, proprio come Petit mentre attraversava la valle su un cavo spesso due centimetri. Voci di anime alte, volti gentili. Le urla della morte disinnescate, come raramente si riesce a fare invece con gli ordigni bellici, campioni di performance e ricchezza per ogni latitudine. Ma non importa, il tempo vince e comprende gli universi, anche quelli dove si sbaglia. Questo di Colum McCann, irlandese di Dublino trasferito a New York, è un regalo del mondo di oggi, della scrittura e dell’artigianato. Sono molto curioso del film che Steven Spielberg ne trarrà. È un’architettura complicata e analogica con una lingua trascritta facile e felice. Alla maniera dei signori della guerra, che osservano e imparano dagli stormi di uccelli quale possano essere le strategie più efficaci, possiamo accettare un’opera d’arte come sollievo e conforto e persino soluzione. Dai nostri mali al nostro bene luminoso. “Non finirà finché non parliamo”. 

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Questo è anche un libro sul conflitto tra Israele e Palestina. Sull’occupazione. Sulla storia di una guerra che pare non avere ancora fine. Nessuno si senta offeso, il torto ci abiterà comunque. Apeirogon: un poligono con un numero infinitamente numerabile di lati.

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