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Il figlio

Altan, ti amiamo

Giuseppe Fantasia

“Sei stato un bambino, dovresti capirmi”, “scusa, ai miei tempi era obbligatorio essere bambini”

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Basta guardarle, le vignette di Francesco Tullio-Altan, per capire che hanno una capacità di informazione e una sintesi straordinarie, finiscono sempre con l’assumere – come disse Enzo Biagi – “un’importanza non inferiore a un articolo di fondo”. Anche maggiore. Sono storie a sé, frutto di una ricerca di consapevolezza che non passa mai attraverso la certezza, perché in realtà, da artista del disegno e della scrittura, Altan non vuole convincere nessuno, ma soltanto porci di fronte a una situazione che ne richiama altre in toni dissacranti, sarcastici, politici e taglienti ricordandoci che alla fine siamo tutti uguali.

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Basta guardarle, le vignette di Francesco Tullio-Altan, per capire che hanno una capacità di informazione e una sintesi straordinarie, finiscono sempre con l’assumere – come disse Enzo Biagi – “un’importanza non inferiore a un articolo di fondo”. Anche maggiore. Sono storie a sé, frutto di una ricerca di consapevolezza che non passa mai attraverso la certezza, perché in realtà, da artista del disegno e della scrittura, Altan non vuole convincere nessuno, ma soltanto porci di fronte a una situazione che ne richiama altre in toni dissacranti, sarcastici, politici e taglienti ricordandoci che alla fine siamo tutti uguali.

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Negli anni, Altan ci ha fatto conoscere gli oramai iconici “la” Pimpa e “il” Cipputi – il cane dalle orecchie lunghe con i pois rossi su pelo bianco tanto amato dai bambini (lo creò per far divertire sua figlia) e l’operaio rassegnato, il mondo come potrebbe o dovrebbe essere e il mondo come è e come lo viviamo davvero. Oltre a questi, ce ne sono molti altri nati dalla sua immaginazione – Ugo e Luisa, il pensionato depresso, la donna disincantata e alcune figure della politica italiana – personaggi morbidi solo nel fisico, figli di una società opulenta e dissipatrice quasi sempre seduti o sdraiati, pronti a sentenziare e a scoprire con le loro frasi lapidarie la nostra Italia che arranca tra infinite “piccolezze”.

 

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Eccoli gli uomini di Altan con i loro nasi a rotella o a fulmine, eccole le donne, casalinghe disperate dal fisico banale o protagoniste dal fascino semi-orientale e seminude, sempre “burrose” – come le definì Fellini – che ci fissano con uno sguardo ammaliante, ma poi a colpirci sono i due fori delle narici in bella mostra. Nella vasta, vastissima produzione di uno tra i più apprezzati vignettisti e autori italiani di fumetti per adulti e per l’infanzia, ci sono anche molti bambini, quasi sempre increduli davanti a una realtà dove l’unica cosa da fare è porre domande a genitori annoiati di cui sono l’immagine e somiglianza in miniatura, dai comportamenti al modo di vestire. Tutti insieme vanno a formare gli italiani che siamo, un popolo sconfitto ma consapevole di esserlo, persone che abitano dentro di noi e con le quali ci consoliamo, al centro di spazi vuoti e bianchi che Altan riempie con immondizia, escrementi o insetti.

 

Quei personaggi sono i protagonisti (in)consapevoli anche di “Papi Mami Bepi”, il nuovo libro di Francesco Tullio Altan pubblicato da Gallucci, e insieme formano una famiglia che esiste, è vero, “la famiglia è tutto” – scrive Altan – “quindi basta e avanza”. La casa è “dolce”, ma le parole di chi la abita meno, e anche quando sembra che si stiano per avvicinare a quello status, lasciano un retrogusto che si ricorda a lungo.

 

“Sei stato un bambino, dovresti capirmi”, dice il figlio al padre. E lui: “Scusa, ai miei tempi era obbligatorio essere bambini”. “Sono disperata!”, dice la figlia alla madre. E lei: “Non occorre che ti agiti, la disperazione è l’ultima a morire”. Poi la consola chiedendole se è felice, ricevendo una risposta micidiale: “Nei limiti del possibile, no”. Genitori con figli e figli con genitori al centro di un nucleo familiare che alla tranquillità e alla protezione preferisce un cinismo che non aiuta, ma forse, almeno fortifica. “Senza di noi tu non ci saresti”, dicono due genitori con l’aria annoiata alla loro piccola, ma lei non si perde d’animo: “E voi due senza di me?”. “Ce l’hai un babbo?”, chiede invece un bambino a una bambina e lei: “Sì, lo vuoi?”.

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Ogni diversità è accettata, ma l’importare è “rigare dritto”. Se qualcuno di loro ha paura dell’orco, poi, l’unica soluzione “è votare per lui”; se si ha un sogno “è meglio continuare a dormire” e se è invece il mondo a fare paura, non c’è da preoccuparsi, perché “è pieno di bimbi terrorizzati”. Guardandoli tutti insieme, ci rivediamo e ci vergogniamo di essere l’attimo del degrado presente in attesa di una possibile interpretazione del futuro che è già lì, ma non ce ne accorgiamo. Sarebbe bello sapere cosa accadrà dopo, sapere quali saranno le altre reazioni di quelle famiglie strampalate ma equilibrate ognuna a suo modo, anche perché è vero che una vignetta dura una pagina, ma poi resta per decenni insieme a noi. Ci piacerebbe sapere cosa si continuerà a fare in quelle famiglie che dividono più che unire e dove siparietti pesanti e spiazzanti portano quasi sempre a una risata, ma questa è purtroppo soltanto la prima delle reazioni che suscitano. La colpa, quando c’è, è sempre del mito. “Fermo lì dannato Edipo”, dice il padre al bimbo. E lui: “Mi chiamo Gino, babbo, in omaggio al nonno”.

 

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