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Fuani Marino

Lettera aperta al presidente della Campania: l’ultima cosa da chiudere era la scuola

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Caro presidente De Luca,

mi rivolgo a lei in una duplice veste: come madre di un’alunna di scuola primaria, e come scrittrice che vive a Napoli. In questi giorni nella nostra regione assistiamo a un balletto fatto di passi incerti: scuole aperte, scuole chiuse, forse di nuovo aperte da lunedì, o ancora chiuse fino al 2 novembre. In ogni caso, gli studenti campani sono stati gli ultimi a tornare in classe e i primi a dover rinunciare alla didattica in presenza. Abbiamo appreso con sgomento, con incredulità, della sua scelta di chiudere le scuole, di ogni ordine e grado, dopo che queste avevano finalmente riaperto i battenti da marzo e da appena quindici giorni. Pensi che a casa nostra ci eravamo quasi abituati a stare senza, a fare da noi: un po’ di compiti tutti i giorni e leggere insieme la sera, una pagina a testa, per esercitarci.

 

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L’emergenza in cui siamo ha scoperchiato il vaso di Pandora, mettendo in luce tutte le nostre criticità: quelle di un sistema sanitario che non regge – eppure si era detto di nuovi reparti allestiti per non farci trovare impreparati. Quello di un sistema Stato-Regioni che non funziona, perché non si capisce chi decide cosa, quello di un’Italia ancora dolorosamente divisa in due, dove il sud arranca e, se i tempi sono duri, arranca ancora di più. Con il suo decreto, poi in parte rettificato, ci siamo ritrovati a essere l’unica regione a dichiarare la resa in partenza. Che a tenere le scuole aperte non ci prova nemmeno. E questa è una scelta che non si può accettare. La ministra all’Istruzione Lucia Azzolina ha definito la chiusura un “grave errore”; dopo l’ultimo discorso del presidente Conte, la scrittrice e insegnante napoletana Viola Ardone ha giustamente osservato in un tweet che in Italia le scuole restano aperte per decisione del governo e che la Campania, fino a prova contraria, si trova in Italia. I genitori si sentono abbandonati: hanno presentato un esposto e sono scesi in piazza, ma ancora non è chiaro cosa abbiano ottenuto.

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Caro presidente De Luca, ai nostri bambini è stato già tolto tanto. In primavera erano come spariti: paradosso dei paradossi, gli unici a non ammalarsi, gli unici cui non fosse permesso uscire. Poi hanno detto che c’era l’estate, fa troppo caldo, per la scuola se ne riparla a settembre. Allora abbiamo aspettato. A settembre con mia figlia siamo andate in cartoleria, abbiamo comprato il diario e l’astuccio nuovi. Ho provato a nasconderle tutta la mia titubanza – sapevamo tutti che davanti a noi ci sarebbe stato un altro anno scolastico incerto, diverso da quelli a cui eravamo abituati prima dell’epidemia, interrotti solo dalle allerte meteo. Abbiamo tirato fuori lo zaino dall’armadio, dopo sette mesi non ricordavo quasi più dove fosse finito. E intanto la data continuava a slittare, ogni settimana era la successiva. Inutile aprire prima delle elezioni, meglio direttamente dopo, sempre dopo. Abbiamo messo dentro la merenda, le mascherine di riserva. Le abbiamo comprate chirurgiche, con i gattini rosa. Poi, a fine settembre, il grande giorno è arrivato, nell’aria c’era un po’ di paura ma soprattutto emozione: perché i bambini tornavano nel loro luogo per eccellenza, quello destinato a loro da che mondo è mondo: la scuola. E non tiriamo in ballo la didattica a distanza, perché la scuola è molto più di una lezione ascoltata con la connessione che salta.

 

Ci siamo adattati alla classe divisa in due per mantenere il distanziamento, agli orari assurdi (perché nelle scuole campane la refezione è sospesa per l’intero anno, un altro nostro triste primato). Ognuno nel suo banco, i bambini hanno imparato a non toccarsi, e che nessuno può prestarti la penna se l’hai lasciata a casa. Neppure il tempo di riassaporare un briciolo di normalità: troppi contagi, scuole chiuse. Rivedere i bambini di nuovo intrappolati dietro lo schermo, ancora la connessione che salta, la cuffia, il microfono, “guardate il mio gatto”. E’ stato terribile, come fare un balzo indietro. Ma come le dicevo non sono qui a scriverle solo come madre, una di quelle su cui grava tutto il carico da mesi, o delle tante che senza la scuola sono costrette a smettere di lavorare, ma le scrivo anche come cittadina che è nata e che vive a Napoli. Io non penso solo a mia figlia, che è una bambina privilegiata.

 

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Penso a tutti i bambini campani che privilegiati non sono, che vivono in case piccole, con fratelli di varie età e dispositivi che non bastano per tutti. Penso ai bambini con disabilità, con genitori che non li possono seguire. Penso anche ai genitori che non attribuiscono alla scuola e all’istruzione la stessa importanza che attribuisco io. Per me la scuola è una priorità, l’ultima cosa da chiudere in un paese civile, anche in piena emergenza, anzi, le dirò di più: soprattutto. Essere i primi a chiudere vuol dire accrescere il divario sociale, alimentare i pregiudizi di sempre: quelli che ci vogliono come una regione arretrata, ignorante. I campani non sono “brutti, sporchi e cattivi”, non vogliono esserlo, e i bambini di Napoli meritano di andare a scuola come quelli di Milano, o anche un giorno in più.

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