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IL FIGLIO

Wimbledon in me

Gaia Manzini

La furia agonistica durante una lezione di tennis. Che ne sai, figlia, del mio diritto atomico?

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Non ho mai giocato a tennis, no. Da ragazzina non ho mai voluto, ho fatto in tutto quattro lezioni in montagna, ai campi di Clusone; poi più niente. Mi vergognavo. Il mio corpo era troppo esposto: esposte le braccia e il petto stretto nella maglietta aderente; esposte la gambe. Esposti i miei movimenti scoordinati e una certa fiacchezza nelle braccia. Tennis, archiviato. No, non mi piace, fa male ai crociati, sviluppa solo una parte del corpo, è noioso: ho accampato scuse per anni. Poi è successo qualcosa. Il fisico nel tempo è diventato più forte, più compatto, perché più forti e più compatti sono diventati la testa e lo spirito. Quando vivevo a Roma mi sono svegliata più di una volta in affanno: stavo giocando a tennis contro un avversario non identificato. Nel sogno la pallina colpita dal mio diritto formidabile era solo una scia fluorescente. Ed eccoci qua, sono passati tre anni da quando sognavo Wimbledon – sognavo un campo d’erba soffice; non il Nobel per la letteratura, né lo Strega o il Campiello, ma questa cosa di far esplodere colpi verso l’ignoto, di sfidare il nulla senza respiro.

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Non ho mai giocato a tennis, no. Da ragazzina non ho mai voluto, ho fatto in tutto quattro lezioni in montagna, ai campi di Clusone; poi più niente. Mi vergognavo. Il mio corpo era troppo esposto: esposte le braccia e il petto stretto nella maglietta aderente; esposte la gambe. Esposti i miei movimenti scoordinati e una certa fiacchezza nelle braccia. Tennis, archiviato. No, non mi piace, fa male ai crociati, sviluppa solo una parte del corpo, è noioso: ho accampato scuse per anni. Poi è successo qualcosa. Il fisico nel tempo è diventato più forte, più compatto, perché più forti e più compatti sono diventati la testa e lo spirito. Quando vivevo a Roma mi sono svegliata più di una volta in affanno: stavo giocando a tennis contro un avversario non identificato. Nel sogno la pallina colpita dal mio diritto formidabile era solo una scia fluorescente. Ed eccoci qua, sono passati tre anni da quando sognavo Wimbledon – sognavo un campo d’erba soffice; non il Nobel per la letteratura, né lo Strega o il Campiello, ma questa cosa di far esplodere colpi verso l’ignoto, di sfidare il nulla senza respiro.

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Eccoci qua: mia figlia ed io, al lato del campo: prima lezione di tennis per entrambe. Mi sono decisa finalmente: la lezione la faremo insieme, non sarò più da sola come in sogno. Tocca a lei, la maestra la chiama, le indica la posizione al di là delle rete e io mi dimentico delle mie oniriche performance agonistiche: torno a essere una madre. Vai tesoro: tuffati, scendi con gli sci, gioca a pallavolo, prendi la racchetta: fai del tuo meglio, divertiti, comunque vada sarà un successo. L’indifferenza del risultato; la volontà come unica partita da giocare, sempre. Oggi però c’è qualcosa di diverso. Gioca mia figlia a pochi metri da me e la osservo dalla panchina, io che di solito non la osservo mai troppo né in piscina né a danza, preferisco far scivolare lo sguardo al telefonino o all’immancabile libro. La osservo: si diverte, non si cura che io la guardi, perché non le ho mai trasmesso ansia da prestazione. I primi tiri vanno bene, si sposta leggera. Lei e la maestra palleggiano con naturalezza, la pallina sembra non voler sfuggire ai loro colpi. E’ portata per lo sport, l’ho sempre saputo. Ride, si diverte; in fondo è solo un gioco con la palla. Poi, d’un tratto, perde il ritmo.

 

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Cavolo concentrati, penso. Non è più coordinata come prima, scherza a ogni tiro. Cavolo concentrati!, urlo. Proviamo a battere il nostro record, le dice la maestra, quanti palleggi abbiamo fatto prima? Lei non lo sa, non lo ricorda. Quattordici, dico io da bordo campo, vergognandomi subito dopo. Forse erano dieci, dodici, non lo so – fingo, lo so benissimo: erano quattordici. Ora tocca a me. I primi colpi non sono granché, d’altronde è la prima volta. Mia figlia mi osserva sorridendo: sono contenta, non voglio si senta in competizione. A casa mi prenderà un po’ in giro: ti muovi male, non hai fiato, non hai forza. Tra tutte le osservazioni quella di non avere forza mi fa male più delle altre. Con la coda dell’occhio vedo che mette una mano nella mia borsa. Ecco, ha trovato il telefonino, ma non le dico niente; so che guarderà tutte le mie conversazioni su whatsapp, che scaricherà qualche app, che cercherà un video dei Me contro Te. Ma per una volta, non le dico niente, non una parola; per una volta ne sono felice, guarda pure quello che vuoi. Ipnotizzati. Mi concentro sul gioco.

 

Capisco di avere un diritto naturale; anzi, un dritto. Batto il tempo: uno, il rimbalzo; due, il tiro. La maestra è soddisfatta. Ho trovato un buon movimento, dice. Basta arrivare con calma, stendere il braccio e colpire la palla. Solo che più vado avanti e più mi ritorna in mente il sogno, mi torna in mente Wimbledon: quell’esplodere colpi verso l’ignoto. Sono tonificata dalla competizione. Ma contro chi? Un tiro finisce nel parcheggio, un altro fuori campo. I successivi sono talmente forti che la maestra mi urla Calma!, come si farebbe con un animale su di giri. E io me ne vergogno. Mi vergogno anche di aver riprovato il tiro in pigiama prima di andare a dormire, e pure questa mattina dopo il caffè; di averlo mimato in macchina per mandare a quel paese uno che mi ha tagliato la strada. Com’è andata la vostra lezione di tennis? Chiede mio marito. Benissimo, dice lei. Benissimo, dico, io. E’ divertente, dice lei. E’ divertente, dico io. Com’è stato vedere la mamma in campo? Lei alza le spalle, non lo sa: d’altronde l’unica cosa che ha visto sono stati i Me contro te. Di rovescio non riusciva a prenderle, dice ridacchiando. Aspetto che compensi descrivendo il mio dritto perfetto, naturale. Invece non dice niente, perché non l’ha visto. Come non l’hai visto? Ora mi dispiace che non mi abbia guardata con attenzione: è la cosa che mi dispiace di più al mondo. Inveisco contro i telefonini, i social, tutti gli YouTuber del mondo; rivendico la potenza del mio dritto: li spazzerei via in un colpo con la mia racchetta atomica. Questi non sanno niente di me, dei miei quarantacinque anni. Non sanno niente dei diritti e dei rovesci della vita. E neanche di Wimbledon.

 

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