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Verso la fine. La morte di un padre e la scoperta che non c'è solo il dolore

Il grande me

Gaia Manzini

Anna Giurikovic Dato nel Grande me (Fazi) mette in scena la vorticosa attesa della morte di un padre malato che dopo anni si ritrova circondato dalla presenza dei tre figli

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Io sono prigioniero di questa contraddizione: da una parte, credo di conoscere l’altro meglio di chiunque e glielo dico trionfalmente (Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!); e dall’altra, sono spesso colpito da questa evidenza: l’altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai”. 

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Io sono prigioniero di questa contraddizione: da una parte, credo di conoscere l’altro meglio di chiunque e glielo dico trionfalmente (Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!); e dall’altra, sono spesso colpito da questa evidenza: l’altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai”. 

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Così scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. E se l’altro è nostro padre? Se l’altro di cui non riusciamo a tracciare i contorni fa parte di noi così profondamente da costringere la percezione che abbiamo di noi stessi a vacillare? 
Anna Giurikovic Dato nel Grande me (Fazi) mette in scena la vorticosa attesa della morte di un padre malato che dopo anni si ritrova circondato dall’affetto e dalla presenza dei tre figli. 


Un padre che per colpa della malattia d’un tratto diventerà materia plasmabile, muterà nel corpo, nell’anima e nella mente, trasformandosi in altro da sé, mostrando l’inesorabilità del tempo e delle ore. 
“Oggi lui non è più soltanto mio padre, ma è anche mio figlio” dice la protagonista. 
La domanda rimane, il quesito aleggia tra le righe: chi è quell’uomo? Chi è stato prima dei figli, oltre i figli? 
Perché quando si avvicina la fine, noi vorremmo sapere tutto, come se l’avere più informazioni possibile potesse servire a trattenere la vita, a farle fare i conti con i particolari. Certo rimarrà l’uomo più amorevole del mondo, quello che era innamorato di sua moglie, quello alla guida di una Ford Mondeo, i figli seduti dietro che coglievano la felicità nell’aria, ma ancora non sapevano che poi sarebbe finita e lui se ne sarebbe andato; è quello che si commuoveva a togliere la cartella dalle spalle della figlia bambina e si struggeva alla sua domanda così innocente e, insieme così triste, su quale fosse il monte più basso del mondo. 


Uno dei figli si appropria della sua corporatura passata, prende chili su chili, gli somiglia e lo sostituisce, perché lui – è evidente a tutti – adesso trascolora, non è più lo stesso. Quel padre è anche stato un bambino che amava stare da solo, immerso tanto nei suoi pensieri da essere soprannominato “Il Leopardi”. 

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E’ stato un musicista, da giovane andava in giro per il mondo con un gruppo, “Gli Arcady”, aveva basette e baffoni neri, per tutta la vita non ha fatto altro che cantare. E adesso è diventato meno sognante, forse più cattivo, dice che vorrebbe uccidere qualcuno. Quell’uomo è stato direttore di un teatro, project manager della Olivetti, senatore della Repubblica, Commissario antimafia, viaggiatore e archeologo. Affamato di riconoscimento, ma anche umile e riservato; pentito di non aver colto tutte le opportunità che gli ha offerto la vita. Un uomo che d’un tratto diventa un nemico giurato della Coca Cola e quella Coca Cola vorrebbe farla scomparire dal mondo prima di andarsene definitivamente.
 L’unica cosa che resta

C’è un momento inevitabile in cui il resoconto del passato è l’unica cosa che resta, perché davanti non c’è nessun futuro e anche il presente risulta fioco. 


Mentre ci avviciniamo alla fine forse siamo davvero tutto quello che siamo stati – e quello che avremmo voluto essere - in ogni declinazione possibile, perché in quel momento tutto si confonde. E il fatto che quel padre, quell’uomo dai confini incerti, dica di avere un segreto e lo comunichi come una notizia inconfessabile, alle orecchie dei figli suona come naturale, come plausibile. Ha un altro figlio dice, un figlio di cui si è dimenticato, nato da un’altra donna tanto tempo fa. E allora scoprire la veridicità di quelle parole diventa il fine ultimo di una figlia disperata, come se là dentro fosse racchiusa la chiave per interpretare il proprio padre, per capirlo e finalmente dirgli addio. Il segreto ci costringe a guardare meglio chi abbiamo di fronte, ad amarlo di più, con più dedizione; quel padre che ormai non è più lui e forse sta diventando simile a Dio. C’è malinconia e dolore in questo libro: lasciare andare un genitore e intanto trattenerlo dentro di sé. 


Ma c’è anche serenità, una gioia trattenuta dentro al fiato sospeso: “Qualcuno potrebbe ritenerla una libertà immorale, ‘ve ne state a ridere felici mentre vostro padre muore’, eppure, ho compreso, la gioia non è il contrario del dolore, ma ne è una componente e con esso può convivere”.

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