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Fiori di campo

Ilaria Macchia

Mio padre va a caccia di mascherine in cantina, e in paese si è sparsa la voce. Adesso, però: non uscire più

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Mio padre è in pensione da meno di due anni. Ancora non sa bene come impiegare il suo tempo libero: si ritrova al bar con gli amici, inventa soluzioni per ricavare un nuovo garage in casa, ascolta musica. Ma più di tutto, passa il tempo a fare la spesa. Adesso però, in questo periodo di quarantena nazionale, gli ho chiesto, in ginocchio durante una delle milleduecento chiamate video quotidiane, di seguire le restrizioni alla lettera e non uscire di casa per nessun motivo. A maggior ragione per la spesa, visto che mia madre lavora in un supermercato e può comprare tutto lei.

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Mio padre è in pensione da meno di due anni. Ancora non sa bene come impiegare il suo tempo libero: si ritrova al bar con gli amici, inventa soluzioni per ricavare un nuovo garage in casa, ascolta musica. Ma più di tutto, passa il tempo a fare la spesa. Adesso però, in questo periodo di quarantena nazionale, gli ho chiesto, in ginocchio durante una delle milleduecento chiamate video quotidiane, di seguire le restrizioni alla lettera e non uscire di casa per nessun motivo. A maggior ragione per la spesa, visto che mia madre lavora in un supermercato e può comprare tutto lei.

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“Va bene, starò a casa”, mi ha risposto il primo giorno.

 

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Il secondo giorno mi ha mandato su whatsapp una di quelle sue foto sgangherate: al centro dell’inquadratura c’era un mazzetto di fiori di campo viola – molto belli a dire la verità – sistemati in una brocca d’acqua. Io, che di solito non sono catastrofista ma per questo coronavirus sì, gli ho urlato: ma dove credi di andare?

 

“Scusa, li ho raccolti per la mamma, così quando torna dal lavoro si rallegra un po’”. Mio padre sa riconoscere le erbe di campo commestibili da quelle che non lo sono, e raccoglierle per cucinarle con il maiale. Ma non è uno che regala fiori viola.

 

“Va bene papà, hai fatto bene – gli ho detto con un po’ di tenerezza – adesso però non uscire più. Di nuovo ha accettato. Sino a che, però, non è sorto un problema vero. Un problema che ci riguarda tutti, e che ci rende pazzi: il reperimento delle mascherine.

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Il supermercato dove lavora mia madre ha preso dei provvedimenti per fronteggiare il virus: un uomo della sicurezza all’esterno che scagliona l’entrata dei clienti; una striscia adesiva gialla sul pavimento che delimita il confine oltre il quale la gente non si può avvicinare al bancone; saponi disinfettanti nei bagni dei dipendenti… e le mascherine? Le mascherine non vengono nemmeno nominate, pensate, immaginate. Le mascherine non ci sono, non ce le ha nessuno. Scarseggiano per la croce rossa, per i medici: perché dovrebbe averle una salumiera?

 

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Eppure io con questa storia delle mascherine mi sono fissata. Che siano davvero salvifiche oppure no, io voglio che mia madre le indossi. Che lavori senza è fuori discussione. “Te le trovo io”, ha detto mio padre mentre una scossa di energia lo attraversava tutto, e lo faceva sentire vivo all’istante.

 

Per prima cosa è sceso in cantina dove c’è un piccolo sgabuzzino pieno di tutto. Ha tirato giù dagli scaffali vecchi sacchi a pelo mai usati (da ragazza non eri nessuno se non avevi un sacco a pelo), valigie rotte, pattini a rotelle. E dentro una bustona della Standa (la Standa!) ha trovato un paio di sue divise da lavoro e tre mascherine. Le usava lui, tutti i giorni, durante i 40 anni e più in cui ha lavorato come operaio in una fabbrica che produce pali della luce in vetroresina. La vetroresina è una plastica rinforzata col vetro, i cui frammenti si infilavano dappertutto, nei tessuti, sulla pelle. E lui aveva sempre un odore specifico, soffocante e appuntito, che amavo moltissimo.

 

“Mamma, fatti una foto quando ti metti la mascherina al lavoro, ti voglio controllare”, le ho detto. E lei l’ha fatto. Questa mascherina, vecchia di anni, aveva una valvola enorme che, abbinata alla divisa bianca che mia madre indossa al lavoro, la faceva sembrava una scienziata nucleare più che una salumiera. Ma vederla così, sia a mio padre che a me ci ha messo il cuore in pace. Le mascherine meglio dei fiori. Averle trovate, per me e mio padre, è stato tutto.

 

E’ stato tutto, ma erano solo tre. E dal supermercato ancora nessuna notizia sul reperimento delle altre. Mio padre, quindi, era ancora in gioco. Di nuovo, nelle sue giornate infossato sul divano, una scossa di energia l’ha travolto. Ha chiamato amici ed ex colleghi: niente. Ha svuotato lo sgabuzzino e anche il sottoscala: niente. Ha provato con Amazon, vabbè. Non poteva fare più niente.

 

E allora non ha resistito: è uscito di nuovo a raccogliere cicorie. E fiori. Ma mentre si aggirava per la campagna ha incontrato Antonio. Antonio è il nostro vicino di casa che un paio di anni fa ha avuto la sfortuna di ammalarsi di leucemia. “Ce le ho io – gli ha detto – ne tengo un paio per me, le altre sono tue.”

 

E così mia madre ora va al lavoro con queste mascherine per immunodepressi, sentendosi più forte, protetta, pronta a dar da mangiare all’umanità intera. E la voce che mio padre cerca mascherine si è diffusa per il paese. Così, quando finiscono quelle di Antonio sono già pronte quelle di Lavinia, l’estetista che ha chiuso lo studio ormai da qualche giorno, e ha regalato a mio padre un pacco di quelle che indossa lei quando mette e toglie lo smalto al gel, roba chimica allo stato puro.

 

E quando finirà anche questo pacco, io non so se Giuseppe Conte si sarà convinto di dover rifornire di mascherine non solo gli operatori sanitari ma anche chi lavora nei supermercati, o i rider, o i camionisti, ma in ogni caso mio padre si sarà di nuovo premunito – ne sono sicura. Non so dove altro andrà a cercarle, ma so che mia madre, e tutti noi, senza di lui, saremmo fottuti. 

 

Ilaria Macchia è scrittrice e sceneggiatrice

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