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Piccole donne chi?

Francesca Cutolo

Tutte adesso parlano del film, e quindi del libro. Ma io confesso: a casa mia non è mai entrato

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Cara Annalena, da quando sono cominciate le riprese e poi è uscito il film al cinema, non si fa che parlare di Piccole donne. Non conosco nessuna donna a cui non abbia sentito dire con eccitazione ad altre amiche, andiamo insieme? Madri attraversate dallo stesso entusiasmo proporre a figlie ormai più che adolescenti la stessa cosa, e tutte con la medesima espressione sul viso: l’espressione di chi ha finalmente trovato l’occasione, o la scusa, per tornare a immergersi in quel mare là, tutte preda di un bisogno urgente di ritrovare sulla pelle quella straziante nostalgia. Tutte unite da un sentimento che io non proverò mai. 

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Cara Annalena, da quando sono cominciate le riprese e poi è uscito il film al cinema, non si fa che parlare di Piccole donne. Non conosco nessuna donna a cui non abbia sentito dire con eccitazione ad altre amiche, andiamo insieme? Madri attraversate dallo stesso entusiasmo proporre a figlie ormai più che adolescenti la stessa cosa, e tutte con la medesima espressione sul viso: l’espressione di chi ha finalmente trovato l’occasione, o la scusa, per tornare a immergersi in quel mare là, tutte preda di un bisogno urgente di ritrovare sulla pelle quella straziante nostalgia. Tutte unite da un sentimento che io non proverò mai. 

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Piccola grande donna, io (ho quasi cinquant’anni), quel libro non l’ho mai letto e neanche mai ho visto il film. Così ogni volta che questo siparietto mi si è creato davanti ho fatto la vaga, ho finto di avere un’improvvisa curiosità per la quarta di copertina di quel libro buttato là, oppure ho cercato con insistenza da esperto d’arte quel dettaglio nel quadro appeso alla parete che mi sta di fronte. In assenza dell’uno o dell’altro ho tirato fuori dalla tasca il sempre amato, e in queste occasioni amato più che mai, telefonino. E l’ho scrollato in cerca di quel messaggio a cui proprio non potevo ulteriormente non rispondere.

 

In preda a una sensazione di estraneità, che ha attraversato praticamente quasi tutta la mia infanzia e adolescenza, al mondo che mi circonda. Perché io facevo parte invece di un curioso sottobosco. L’estraneità che ancora oggi mi va venir voglia di glissare . Non è una bella sensazione, anche se ho imparato presto a trovare il bello, che doveva esserci, che c’è sempre: di questo oramai sono certa, e anche quindi il bello di avere una famiglia come lo è stata la mia.

 

Ma la situazione Piccole donne, là dove questo titolo non è che uno dei tanti momenti in cui mi sono sentita la bestiolina esotica da osservare nella teca, non so come spiegarla. Non so come dirlo che non l’ho mai letto e che a nessuno è mai neanche balenato nella mente di regalarmelo, non una zia non una nonna, figuriamoci una madre; e già me li immagino i commenti, già vedo lo sgranare degli occhi al suon di: non lo hai mai letto? ma dove hai vissuto? Non so proprio che parole usare, come spiegare che Piccole donne a casa mia non solo non è mai entrato, ma se anche si fosse materializzato si sarebbe bruciato per l’imbarazzo, tra le fiamme del peccato.

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Ora, io non so cosa precisamente si raccontasse in questo libro, so che parla di sorelle tutte diverse una dall’altra, una madre, altro non saprei. Ma rintraccio dai racconti, dalle cose che ho udito, da quelle vaghe immagini che mi si sono formate nella mente, una materia a me estranea anni luce. A casa nostra si leggeva molto, e si discuteva di questo o quel libro, di quel tale regista e si poteva star ore e ore a discutere per una divergenza di idee, ci si animava e non passavano inosservate certe vicende politiche di quegli anni. Ricordo una me piccolissima alle riunioni delle femministe, l’odore di fumo, le urla animate, le guance paonazze di mia madre. E certe lunghissime serate a casa nostra gremite di giovani e io che non volevo mai andare a letto – che eccitazione – le risate, la musica, il suono di una chitarra. E gli amici di mia madre che fumavano spinelli di un’erba che era coltivata direttamente sulla nostra grande terrazza vista mare. E la quantità di volte in cui ho bellamente approfittato di quella spensieratezza, lasciandomi coccolare per ore passando di braccia in braccia a quei cari amici che trovavano nel corredo di casa anche quei due morbidi bambolotti: mio fratello e io.

 

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Dovrei proprio raccontare di un’infanzia vissuta nella più totale libertà: di espressione, libertà di condivisone, da una semplice banale emozione sino al far vedere tutto tutto, persino la cacca e la pipì, che ovviamente potevano essere tranquillamente fatte senza chiudere la porta. Certo, niente Piccole donne. Dovrei insomma raccontare che la mia infanzia era davvero sui generis, e nulla di quello che si faceva nelle case delle mie amiche (come ad esempio leggere e far leggere Piccole donne), ha mai abitato la nostra casa e nessun genitore che conoscevo poteva essere paragonato ai miei genitori, nel bene e nel male: la mia famiglia non rispondeva a nessun criterio e anche io, come ogni figlio, ma questo l’ho capito molto dopo, ho avuto vergogna di questa diversità, troppo più grande di me. I bambini si sa sono reazionari, e quindi ho avuto vergogna dei miei genitori e forse più di tutto di mia madre, del suo modo di esistere totalmente anticonformista del suo modo di vestire, amare, soffrire e urlare.

 

Ma ora, proprio ora a fronte di tutto questo, invece dico: chi se ne frega di Piccole donne e di questo atto mancato. Una mia amica con fare compassionevole ha detto: almeno ascoltalo su Audible. Le ho risposto sorridendo: sì certo, come no. Invece torno con il pensiero su quella terrazza vista mare, e al diavolo Piccole donne.

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