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Ambulanze, notti insonni, psicosi da coronavirus e altre sciocchezze

Annalena Benini

Il metodo scientifico di contare fino a cinquemila. Per la febbre, per i litigi, per l’esistenza

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Nella via dove abito la notte scorsa è arrivata l’ambulanza per un sospetto caso di coronavirus. Non che io me ne sia accorta, nella via dove abito arrivano sempre le ambulanze, e poi la notte scorsa mio figlio aveva l’influenza e quindi io ascoltavo solo il suo respiro. Usavo il mio solito metodo antiscientifico: se arrivo a contare fino a cento senza che il respiro torni affannoso, allora sta guarendo. Poi fino a centocinquanta, poi fino a duecento, e a un certo punto infatti, tra le quattro e le quattro e trenta del mattino, mio figlio è guarito, e si è svegliato la mattina dopo con una gran voglia di Ferrero Rocher.

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Nella via dove abito la notte scorsa è arrivata l’ambulanza per un sospetto caso di coronavirus. Non che io me ne sia accorta, nella via dove abito arrivano sempre le ambulanze, e poi la notte scorsa mio figlio aveva l’influenza e quindi io ascoltavo solo il suo respiro. Usavo il mio solito metodo antiscientifico: se arrivo a contare fino a cento senza che il respiro torni affannoso, allora sta guarendo. Poi fino a centocinquanta, poi fino a duecento, e a un certo punto infatti, tra le quattro e le quattro e trenta del mattino, mio figlio è guarito, e si è svegliato la mattina dopo con una gran voglia di Ferrero Rocher.

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Contare è servito, contare serve sempre, per un sacco di cose. Io conto fino a cento prima di leggere un messaggio, se sto aspettando un messaggio e lo aspetto proprio come lo voglio io. Conto fino a cinquanta anche prima di aprire il registro elettronico (delle insufficienze dei miei figli mi frega comunque molto meno che dei miei messaggi). Quando in pizzeria ho troppa fame, conto: se la pizza arriva entro il settanta, allora andrà tutto bene per tutto il mese (solo se siamo già oltre la metà del mese, sennò devo fare un altro calcolo), e non litigheremo. Quindi, poiché stavo contando fino a trecento, non ho sentito l’ambulanza arrivare, ma l’ho letto sui giornali: nell’albergo accanto a casa mia c’era un turista cinese con la febbre alta. Sono arrivati con le tute bianche e l’hanno ricoverato. E da scuola arrivano ogni giorno avvisi tesi a rassicurare, ma che invitano a usare le mascherine e a lavarsi le mani con l’alcol e a bere acqua in bottiglie sigillate.

   

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Vorrei abbandonarmi alla psicosi, ma non ne ho il tempo: devo contare fino a centosettanta per essere ragionevolmente certa che non mi verrà lo stesso virus di mio figlio, che comunque ha vomitato per una notte intera. Funziona così: se entro il numero centosettanta non ricevo messaggi o mail o non sento persone che parlano di virus, allora sono salva. Ed è salva anche mia figlia, che l’altra sera, quando Giulio ha cominciato a sentirsi male, ha cercato di convincermi che era tutta una finta per non fare i compiti e non andare a scuola. “Voi gli credete sempre”, diceva, “ma lui è un attore, lo facevo anche io alla sua età: mamma ma non lo vedi, come puoi essere così ingenua?”. E mentre lui diventava giallo e poi verde, lei sosteneva che io ci casco sempre, che quella era una trappola, e diceva, seriamente arrabbiata: se lui ti dice che gli asini volano, tu ci credi, ma tu non lo conosci come lo conosco io. Insomma, non potevo abbandonarmi alla psicosi del coronavirus perché avevo già altre psicosi urgenti dentro casa. Non sapendo come risolverle, ho deciso di contare. Se arrivo fino a mille senza che Giulio si sia mosso dalla Playstation, allora ha ragione sua sorella e io ho coltivato finora soltanto illusioni, non solo su mio figlio ma anche sulla mia intera esistenza (ho esagerato, perché ho capito che esagerare mi calma). Voglio precisare, senza polemica alcuna, che mentre conto sono perfettamente in grado di fare tutto il resto, non essendo un uomo, e voglio precisare anche che se ho trentasette e due posso continuare a vivere, a camminare, a parlare e lavorare, sempre non essendo un uomo.

  

Ma avevo appena detto, dentro la testa: venticinque, e mio figlio è corso verso il bagno, senza purtroppo fare in tempo ad arrivarci. E’ stata la prima volta, e spero l’ultima, che ho esultato per una scena così orribile. Ho guardato mia figlia con aria trionfante, e lei mi ha urlato: e allora? Prima faceva finta. Io allora ho urlato che non ho faticato tanto per partorire un’insopportabile complottista. E poiché noi urlavamo, soltanto il cane si occupava Giulio, che da verde adesso era diventato grigio. Sono corsa a prendere altri asciugamani e un pigiama di ricambio, e quando sono tornata in bagno ho visto questa scena: una sorella che regge la fronte a suo fratello, e gli dice: non puoi andare a scuola per tutta la settimana, stai malissimo, adesso però cambiati e vieni con me che ti metto Netflix. Ho contato fino a tre, e lui ha detto: vengo, grazie.

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