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Il costume

Mario Terlizzi

Le piante di fragole in fila indiana e mia madre chinata a raccoglierle. La mia solitudine. Il racconto di Mario Terlizzi, finalista al concorso letterario 8X8

Pubblichiamo due degli otto racconti finalisti al concorso letterario 8X8, ideato da Leonardo G. Luccone, undicesima edizione. Racconti letti dagli autori ad alta voce davanti a giornalisti, scrittori, editor e editori. “Il racconto è la sintesi di una vita, e insieme la vita sintetizzata” (Julio Cortazàr)

 


 

All’alba, il rombo del Ford Transit faceva tremare le imposte di ogni casa in quella strada chiusa, svegliandomi. Il furgone si fermava e il motore diesel girava in attesa. Dalla cucina sentivo mia madre chiudere la tapparella e uscire.

 

La spiavo dalla fessura che il terremoto aveva lasciato nella mia stanza, salutava e s’infilava nel pulmino tra una dozzina di teste femminili illuminate dalla luce fioca dell’abitacolo, appoggiate ai finestrini come manichini. La marcia indietro portava via la puzza di nafta e mia madre nella piana del Sele, a poche centinaia di metri dal mare.

 

Dopo poche ore, al posto del Transit ci sarebbe stata la Fiat 126 della zia con dentro lei e i miei cugini. Non citofonava mai, a lei bastava intonare il mio nome spezzato in due; sentivo arrivare quei tronconi di parole come due carrozze volanti. Non mi piaceva farli aspettare, e neanche volevo che l’intero vicinato sentisse ripetere il mio nome.

 

Da uno dei cassetti del vecchio armadio tirai fuori il mio costume azzurro ormai sfilacciato e sbiadito dalle troppe estati. Più in fondo, sotto i fazzoletti di cotone, ce n’era un altro intero, blu, ancora imbustato. Lo notavo sempre, e ogni volta le parole per chiedere rimanevano incastrate tra la pancia e la gola.

 

La voce di mia zia arrivò come cento trombe della fanfara dei bersaglieri: veloce e squillante.

 

Dopo il primo bagno, ci mettevamo sotto l’ombrellone agli ordini di mia zia. Il sole mordeva la pelle, il sale disegnava vene bianche come fiumi antichi ormai prosciugati.

 

Il mio panino era sempre l’ultimo a venir fuori dal sacchetto, la mia posizione non era mai del tutto all’ombra; la pelle di un piede o di un gomito diventava rossa prima del resto del corpo, bruciava ma restavo in silenzio, perché mamma si era raccomandata tanto: “La zia ci fa un grosso favore”.

 

Rideva spesso zia, sembrava felice, solleticava i figli a due centimetri da me, vedevo le loro pance sussultare e poi rotolarsi nella sabbia, mentre io sorridevo e incrociavo talvolta il suo sguardo. Forse valutava di solleticare anche me? Quando il caldo iniziava a cuocere la sabbia, zia diventava un tornado, raccoglieva ogni cosa compresi i figli e filavamo via schizzando come biglie nei flipper. “Questo sole fa male” diceva.

 

Quel giorno passammo dal posto dove lavorava mia madre: terra sotto chilometri e chilometri di plastica arroventata. Respiravamo a fatica, e tutto intorno avevamo un esercito di donne con pantaloni di tela infilati negli stivali di gomma e reggiseno, le braccia scure, la pancia bianco cadavere. C’erano centinaia di solchi uno di fianco all’altro, e lungo ogni solco le piante di fragole in fila indiana arrivavano fin dove riuscivo a vedere.

 

Zia urlò il nome di mia madre e una schiena si drizzò lenta fino alla testa. La mamma prese una maglietta dal suo zaino e se la infilò mentre parlava con il solo uomo presente, lui fece cinque con la mano. Quando arrivò da noi, mi chiese se avessi fatto arrabbiare zia, e feci no con la testa. Non era felice di vedermi lì, aveva un broncio che bruciava, sembrava appartenere a una famiglia di maschere senza bocca. Zia aveva un pantaloncino bianco e una canotta rossa, la sua pelle era abbronzata uniformemente del colore del cappuccino. Le altre donne la rimiravano come fosse una miracolata.

 

Mia madre prese delle fragole ammaccate da una cassetta gialla, le lavò sotto un tubo per l’irrigazione e ce le diede. Io ne presi una controvoglia, mentre Ada e Vincenzo mangiarono felici le loro. Quando l’uomo fischiò verso di noi, mia madre scattò verso il suo posto, il suo solco, la mia solitudine.

 

Avevo imparato a friggere le uova, e quel giorno furono il mio pranzo. A fine pasto feci come i grandi, mi versai un po’ di Amaretto di Saronno nel bicchiere che mia madre usava per il sindaco quando veniva a chiedere il voto.

 

Dopo aver lavato i piatti, andai all’armadio e presi il costume misterioso, lo scartai, lo annusai: aveva l’odore delle vecchie coperte di lana in estate, quando restano a lungo chiuse. Lo indossai senza riempirlo, le bretelle mi scivolavano dalle spalle, cercai di tenerle su stringendole forte sul petto mentre mi specchiavo. Era largo anche sotto, e il riflesso dei genitali mi imbarazzò, così mi accucciai sul letto come un cucciolo ancora privo della vista.

 

Mia madre mi svegliò e chiese del costume che indossavo. Le dissi se potevamo andare in spiaggia insieme, una volta. Lei rispose che il mare voleva tempo, era per chi non è stanco.

 

“Io non lo sono” risposi. Mia madre rimase zitta, mi aiutò a togliere il costume e lo ripiegò con cura. “Mamma, perché quel costume è nuovo?”. Rispose che l’aveva comprato qualche estate prima, il giorno in cui papà era morto in quel cantiere. “Ora va’ a giocare fuori, tra poco mangiamo”.

 

Dopo cena, mia madre aveva gli occhi rossi dal sonno come ogni sera, quando la stanchezza la accartocciava sul divano mentre io scendevo in strada.

 

Corsi a recuperare una bacinella nello scantinato e mi avviai in direzione del mare seguendo il ruscello, così come mi aveva insegnato mio padre.

 

Rubai un pugno di sabbia e pochi litri di mare. Entrai in casa in punta di piedi, andai in bagno, misi il tappo alla vasca e poi svuotai piano la bacinella. Le scrissi un biglietto: ora puoi usare il costume, hai un po’ di mare nella vasca.

 

Mario Terlizzi (editing di Marzia Grillo)

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