L'attrice americana Kaley Cuoco, in una scena di Big Bang Theory

Trentotto e sette e l'influenza di cui non importa niente a nessuno

Annalena Benini

Non ho più il diritto di ammalarmi, solo quello di sentirmi come Humphrey di Incompreso

Trentotto e sette. Ecco perché sento così freddo, stasera. Trentotto e sette su un termometro Chicco, quindi forse è sbagliato, forse misura la febbre solo ai bambini. Devo comprare un termometro vero, ma non ho più forze, ho solo freddo, anzi freddo fuori e bruciore dentro, e sì, mi fanno malissimo i capelli, ma soprattutto mi sento incompresa. Mi sento sempre incompresa, sia chiaro, ma quando mi sento particolarmente incompresa, incompresa come Humphrey di Incompreso, il romanzo di cui non posso nemmeno vedere la copertina senza scoppiare a piangere, e lo stesso vale per il film, quando insomma sento che io e Humphrey siamo uguali e ci capiamo benissimo, unici al mondo, e io so che lui non ha colpa e lui sa che io ho ragione, significa che mi sto ammalando.

 

 

 

Magari mi sono ammalata già da qualche giorno, ho la tosse, ho mal di gola, sento il vento che si infila dentro le arterie e mi svuota completamente il cervello, ma finché non arriva Humphrey a dirmi che ho l’influenza, per me l’influenza non esiste. Non esistono i termometri, la tachipirina, le sciarpe, le calze, le spremute d’arancia. Aspetto lui, da solo o in coppia con la Piccola Fiammiferaia, e quando ho raggiunto il grado massimo di autocommiserazione solitaria e di tosse secca notturna, quando nemmeno il pensiero degli gnocchi all’amatriciana riesce a darmi sollievo, solo allora posso accettare di provarmi la febbre. Velocemente però, senza aspettare che il termometro suoni, perché il suono del termometro mi ricorda quello degli allarmi, e mi spaventa. Dopo che Humphrey e io scopriamo di avere la febbre, una febbre misurata un po’ a casaccio, come le nostre vite del resto, non sempre lo diciamo al resto della famiglia. Perché comunque, anche quando lo diciamo, a nessuno importa il destino di noi incompresi. La verità è che a nessuno frega niente di niente.

 

Ho trentotto e sette, cara famiglia, penso di andare a letto presto stasera. “Non puoi, devi aiutarmi con il tema”, dice mia figlia, e io mi lamento, non voglio, ma poi comunque mi arrendo perché se la guardo ancora mentre succhia la penna e continua a cancellare l’unica frase che ha scritto e a stropicciare il foglio già macchiato di minestrina in brodo, sento che fra cinque minuti il termometro potrebbe esplodere in mille pezzi. Sto praticamente dettando il tema, seduta sulla sedia in cucina, e mio figlio prova le mosse nuove di pugilato proprio contro la mia sedia: mentre io sobbalzo lui mi dice che comunque non ha intenzione di andare a letto né di andare un giorno alle scuole medie né di imparare ad allacciarsi le scarpe. Cerco di ignorarlo, fingo che non esista, e in quel preciso momento mio marito spalanca la finestra e si accende una sigaretta: la finestra è proprio accanto a me, e il vento freddo della sera trasporta velocissimo il fumo della sigaretta sulla mia faccia e dentro il mio corpo, che in questo momento, a causa della febbre e della vicinanza morale di Humphrey, accoglie tutto, sente tutto, tossisce tutto e soffre tutto.

 

Devo riuscire a costruire una frase con “idilliaco” per il tema sulla Colazione sull’erba di Manet, ma mi vengono in mente solo frasi con “ira”, e “funesto”, e anche “massacro”. Mi alzo e me ne vado, a questo punto zoppico e sento di avere bisogno di una protesi all’anca, ma mia figlia mi insegue anche in bagno, anche a letto, e mi chiede un sinonimo di “ergersi”, le serve assolutamente prima che io muoia. Ottenuto il sinonimo, vola via come una libellula e finalmente io, Humphrey e la tachipirina possiamo dirci tutto, lamentarci di tutto, darci importanza a vicenda, sentirci totalmente incompresi e felici di stare al buio. Per alcune ore, infatti, nessuno verrà da noi nemmeno per sapere se ci serve un bicchier d’acqua, una coperta, un caricabatterie. Il giorno dopo, la mattina dopo, tutto è già meravigliosamente dimenticato: nessuno si ricorda che avevo la febbre, nessuno pensa che potrei averla ancora e non accompagnarli a scuola, a questo punto è sparito perfino Humphrey. E io allora sento che non posso più permettermi di fare questa lagna, non ne ho il diritto e non importa a nessuno, e quindi mi rassegno, butto il termometro e guarisco.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.