Quando l'universo s'illumina, ed esistiamo solo io e mia figlia

Giorgio Nisini

Dalla frustrazione incontenibile del momento in cui diventai padre, fino alla scoperta di un senso di completezza

Il giorno in cui è nata mia figlia ho capito che una parte di me stava morendo. Non l’ho semplicemente capito, l’ho sentito: ho sentito che di fronte a lei – all’innamoramento che provavo per lei – una forza ignota mi stava scaraventando in una periferia estrema di me stesso. E’ stata una rivoluzione copernicana: prima c’ero io – la mia vita, i miei desideri, la mia intimità, l’intimità tra me e mia moglie – poi, il nulla. O meglio, un essere arrivato dal nulla che già attirava l’attenzione di tutti.

 

Non è facile accettare che i tuoi bisogni, anche i più immediati – il sonno soprattutto – non possano più essere soddisfatti come prima. Per lungo tempo dopo la nascita di Matilde non riuscivo più a dormire, a scrivere, a fare l’amore, a uscire con un amico senza preoccupazione e sensi di colpa. Dal mio nuovo spazio periferico la vita ha cominciato a perdere d’interesse. Non sentivo più gli odori, per esempio, i profumi, i gusti – o meglio, sentivo altri odori che però non mi piacevano, odori d’infanzia e di omogeneizzati, mi davano un senso di nausea da cui non riuscivo a liberarmi. Credo fosse una forma di depressione post partum; solo che non ero io ad aver partorito, ero solo uno strumento genetico, un donatore di seme che non aveva neanche il beneficio della comprensione degli altri.

 

Ricordo un giorno del 2011, Matilde aveva meno di quattro anni, suo fratello, che era nato nel frattempo testimoniando l’arrendevolezza del mio corpo a una forza riproduttiva irrefrenabile, dormiva miracolosamente nel passeggino. Era estate, faceva caldo, stavamo camminando lungo una via piena di locali. A un certo punto incontrai un amico che non vedevo da tempo, un tipo benestante che trascorreva le sue giornate tra impegni culturali e fidanzate diverse a ogni cambio di stagione, come fossero abiti che passavano rapidamente di moda. Ricordo perfettamente il senso di disagio che provò nel vedermi nelle mie funzioni di padre, stanco, sudato com’ero, oscurato dai miei figli, mano nella mano con la stessa moglie da quasi vent’anni. Parlammo qualche minuto, rimase stupito che non avessi visto l’ultimo film in concorso a Venezia, che non avessi letto l’ultimo libro di cui parlavano tutti. “Ti sei proprio imborghesito”, mi disse con una violenza verbale e una ferocia che esprimeva tutto il suo disgusto.

 

Mi tornò in mente un brano di Raymond Carver dedicato alla sua esperienza di padre. S’intitola Fuochi, e racconta un episodio accaduto in una lavanderia a gettoni nella metà degli anni Sessanta. In quel periodo Carver aveva enormi difficoltà a scrivere, il tempo non era mai abbastanza, le esigenze quotidiane lo pressavano in maniera spietata. Anche quel sabato non aveva possibilità di scrivere: chiuso nella lavanderia a gettoni, in attesa che si liberasse un’asciugatrice per i panni dei suoi bambini, fu assalito da un senso di confusa frustrazione che quasi lo portò alle lacrime – helpless frustration, scrive, una frustrazione incontenibile, simile a uno smarrimento. Sapeva benissimo che i suoi scrittori preferiti non trascorrevano il sabato in una lavanderia a gettoni, che la sua vita era troppo poco interessante per essere paragonata a quella di un vero artista.

 

Ogni volta che rileggo quel brano penso che la determinazione di Carver nel realizzare i suoi sogni avesse qualcosa di eroico. Lo aveva molto più della vita del mio amico benestante, con le sue notti svincolate da qualsiasi limite e responsabilità. Carver di notte, invece, proprio come me, tornava alla dimensione bassa dell’esistere, s’imbrattava le mani con i pannolini sporchi e con il rigurgito di latte; tornava al corpo e alla sua fisicità, all’insufficienza cronica di sonno.

 

C’è una scena che non dimenticherò mai. E’ tardi, mia figlia non riesce a dormire, piange con una disperazione inconsolabile. Preso anch’io dalla disperazione, la prendo tra le braccia e inizio a passeggiare per casa con un libro in mano. Non so cosa sto leggendo, non so neanche perché sto leggendo, preso come sono dallo sconforto per le ore di sonno perduto. Come farò il giorno dopo a lavorare? Come riuscirò a trovare la concentrazione per scrivere anche una sola riga decente? Non c’è risposta, lo so – non ho risposta; eppure a un certo punto sento il respiro di mia figlia farsi più calmo, gli occhi cedere, l’espressione decontrarsi dalla smorfia di disperazione. In quell’attimo provo una completezza che non avrei mai ritenuto possibile. Smetto di leggere, la guardo con un sorriso ebete in faccia, e sento il potere – la potenza – che ho su di lei. E’ in quella potenza che tutto improvvisamente si fa chiaro, la periferia dell’universo s’illumina, anzi smette di essere periferia, perché non esistono più un centro e una periferia, esistiamo solo io e mia figlia, in quel momento, solo io e lei.

 

Poi tutto passa, la stanchezza sopraggiunge implacabile. Pochi minuti dopo dormiamo abbracciati sul divano. 

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