Le notti blu

Nadia Terranova

“Tu non conti, a te non ti ho messo al mondo io”, ecco il nome di una impossibile riparazione

A volte una sola frase condensa l’annaspare del popolo sommerso che affolla un libro intero; quella riga, allora, riempie di senso le scene passate e future, traduce in parole le afasie, completa i dialoghi più evocativi e cambia direzione a quelli più fitti; da quel momento il lettore procederà con una consapevolezza diversa, conoscendo per nome la materia trattata, non tanto “il tema” del romanzo (i romanzi, i buoni romanzi, non parlano d’altro che di loro stessi) quanto il centro intorno a cui l’ossessione dello scrittore è nata e ha preso forma. Chi legge “Le notti blu” di Chiara Marchelli, pubblicato dall’editore Giulio Perrone, candidato al Premio Strega, troverà questa rivelazione a pagina 38: “Tu non conti, a te non ti ho messo al mondo io”, dice una moglie a un marito mentre parlano, quasi ringhiano, e non sono più d’accordo su cosa significhi prendersi cura di qualcuno. Larissa ha stabilito che, per quello che riguarda la responsabilità nei confronti degli altri, la sua vita è stata un fallimento incontestabile; Michele ha provato a protestare: non è vero, le ha detto, io e te ci siamo sempre presi cura l’uno dell’altra.

 

E’ stato allora che Larissa si è alzata da tavola: “Tu non conti, a te non ti ho messo al mondo io”, ha sibilato esasperata. Il mondo indicibile dentro cui si muovono questi due personaggi è il suicidio del figlio, quella morte che lascia le persone senza una parola a ridefinirle: chi perde un genitore è orfano, chi perde il coniuge vedovo, chi perde un figlio è perduto e basta. Da cinque anni Larissa e Michele vivono senza Mirko, che si è suicidato lasciando in Italia una moglie, Caterina, e in America quel padre e quella madre senza più un ruolo, un uomo e una donna persi in notti insonni dalla luce blu diffusa in tutte le direzioni, rifratta dalle particelle più piccole degli strati alti dell’atmosfera, una luce che colpisce lo sguardo e impone sul mondo un’unica tinta. La morte di Mirko è quella luce; la sua assenza compare nel latte che di notte Michele non riesce più a bere, nella scomparsa di un lessico che potrebbe evocare cura e fiducia, nel viversi accanto con ostilità senza dirsi nulla perché non c’è più nulla da dire. La scrittura essenziale e sicura di Chiara Marchelli entra nel tempo e nello spazio di quella famiglia, nel guscio dentro cui vivono Larissa e Michele, esplora i cinque anni di solitudine di un matrimonio sgretolato e corroso, ancora vivo ma vinto per sempre, piegato nell’accettare che nessuna ricomposizione sarà possibile, mai.

 

“Tu non conti, a te non ti ho messo al mondo io”, quella frase che è l’architrave del romanzo prova a dare un nome, il più prossimo, al dolore che non rientra in nessuna logica e fuoriesce dall’ordine dell’universo: mettere al mondo un essere umano e poi non saperne impedire la morte, addirittura la scelta della morte. Michele sente su di sé la sarcastica esattezza della teoria dei giochi messa a punto dal matematico ed economista John Nash: “La premessa indispensabile è che tutti devono essere a conoscenza delle regole, e di ogni singola mossa”. Nessuno dei personaggi di questo romanzo conosce le regole né le mosse degli altri (“le cose che non sappiamo di una persona sono quelle che la rendono umana” ha scritto un’altra autrice, Miriam Toews), tutti si muovono su una scacchiera in disequilibrio, ciascuno è impegnato in un ruolo e per ciò può mostrare appena una parte di sé; Mirko, il ragazzo che voleva morire, aveva come tutti una vita segreta, sconosciuta ai genitori e anche alla moglie, rimasta almeno in apparenza fedele a un lutto. La traccia lasciata da Mirko nel mondo è André, il bambino avuto da un’altra donna. Michele e Larissa lo scoprono da una lettera; non sanno se esista davvero né se sia davvero nipote loro, non sanno neppure se Mirko l’abbia mai riconosciuto, possono provare a immaginarne gli occhi, i capelli, lo sguardo, non possono non soffrire mentre cercano in quella fantasia un altro bambino, il loro, che poi è diventato adulto e infine ha scelto di non essere più niente.

 

C’è una misura commovente, nel romanzo di Chiara Marchelli, che si traduce in una consapevole, sorvegliata assenza di elementi patetici, una normalizzazione del dolore che non diventa mai anestesia. “Le notti blu” racconta cosa significa essere figli e genitori, e lo fa mescolando i vivi e i morti: André diventerà grande senza un padre biologico, Michele e Larissa invecchieranno senza il figlio che avevano cresciuto. Solo Mirko, il protagonista che non c’è più, rimane fermo nel tempo, come una sovrapposizione di istantanee in tempi diversi nella memoria degli altri, di volta in volta un marito che si addormenta con Zolpidem e vodka, un amante che bussa a una porta perché vuole riconoscere il suo bambino, un figlio di nove anni che indica un punto lontano nel mare di Punta Mesco.

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